Ar.Ma.

Arti marziali del Sud-est Asiatico => Silat/Arnis-Eskrima-Kali => Topic started by: Claudio Alfarano on May 05, 2011, 19:26:56 pm

Title: IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 05, 2011, 19:26:56 pm
ok.... inizio a mettere qualcosa e vediamo come và...


PARTE I - INTRODUZIONE

Il “Frutto Amaro”. Majapahit.

Il nome di un regno dell’arcipelago malese, nato poco prima del 1300 e caduto poco dopo il 1500.
L’ultimo grande regno Hindu prima dell’avvento dell’Islam.
Isola di Java, Indonesia, il centro dell’impero Majapahit, che estendeva la sua influenza dalle Filippine a Sumatra, dal Borneo alla Malesia e Singapore.
Una lunga striscia di terre che sembrano giganteschi frammenti di un megalitico smeraldo esploso milioni di anni fa nell'azzurro del Mare di Java, tra l'Oceano Indiano e quello Pacifico.
Luoghi dove il verde ancora sovrasta con le sue sfumature e colori il monotono grigio del cemento delle metropoli. Territori dove i profumi, i suoni, le voci o i silenzi riescono a coprire l’incessante brusio di auto e prodotti della tecnologia incalzante. Dove le tradizioni combattono la loro eterna battaglia per la sopravvivenza contro l’offensiva della globalizzazione.

Il mio “viaggio” inizia da questo nome: “Frutto Amaro”, “Bitter Fruit”. Un termine simbolico. Quel frutto fu oltremodo amaro per le mille navi dell’Impero Mongolo di Kublai Khan giunte lì per punire il rifiuto di pagare i tributi. Confuse e sparpagliate, colsero l’occasione di sfruttare i venti dei monsoni per il loro dimesso ritorno a casa, a capo chino, pena l’aspettar lì in territorio ostile altri sei mesi. La controffensiva dell’arcipelago partì proprio dal villaggio di Majapahit, dove il locale frutto di nome Maja era tanto amaro da prestare il proprio nome all’omonimo villaggio, come poi il villaggio fece con il regno.

Ed è proprio una terra di villaggi e tribù, capanne e pescatori, spiagge e giungle, pianure fangose, terrazze di riso, montagne e corsi d'acqua, di foreste soffocanti, dove ogni suono potrebbe essere l'ultimo, di variopinti uccelli, bufali d’acqua, geki e grandi sauri, felini e grandi primati a fare da sfondo e sottofondo a un universo esotico e affascinante. E’ il regno del mare e dei templi, il regno di Bima, Garuda e Naga, la terra del Nagarakertagama, il principale poema epico Javanese, dove le donne portano i loro figli a tracolla nei Sarong colorati e gli uomini forgiano i loro Kriss dalla lama serpentina, scolpendovi il metallo e cesellando manici e foderi di legno pregiato e osso, infondendovi benedizioni e spiriti e demoni in quelle contrade ancora temuti e rispettati. Territori selvaggi protagonisti delle narrazioni di Emilio Salgari e Joseph Conrad.

E’ in posti come questi che nacque il nostro “frutto amaro”, dalle anime di questi luoghi, dalla loro storia e dalle loro leggende. E noi, aspiranti interpreti, ultimi umili eredi di Arti in via d’estinzione, ci facciamo carico dell’onore, dell’impegno di far sì che tale cultura marziale non vada perduta, onorando e rispettando quello spirito e quella dedizione che i padri pretendono, ed è con la loro benevolenza e benedizione, parimenti a quella degli anziani e dei nostri predecessori che speriamo di continuare il nostro comune, difficile, dolce e amaro viaggio tra spirito e materia, tra anima e sangue, carne e ossa di un'Arte chiamata Pukulan.

Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on May 05, 2011, 19:31:16 pm
Bello , davvero bello. Anche sul Fam avevo potuto apprezzare le tue qualità di scrittore  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 05, 2011, 19:34:38 pm
PARTE II  : L'ANNUNCIO

Giocherellavo con le briciole di pane, spingendole lungo una delle strisce della tovaglia a quadri quando Alberto disse: “conosco poche persone che sarebbero capaci di restare in piedi in un confronto senza regole con lui…”. Il gesto del mio dito che colpiva le molliche mi restò scolpito nella memoria insieme a quella frase.

Era l’ultima cena prima dell’esame di terzo grado istruttore di Jeet Kune Do, Kali Filippino e Silat Indonesiano. Il terzo anno di corso, e, come sempre, si restava a tavola a parlare di stili, storia, tecniche e personaggi di un mondo spesso grottesco. Innumerevoli erano gli aneddoti che Alberto e Emilio ci raccontavano, dimostrazioni, episodi, piccoli falsi miti del mondo marziale italiano e non. Ce n’era per tutti, nessuno veniva risparmiato. Ai racconti di Alberto, direttore dell’associazione che io rappresentavo in Campania, seguivano i divertenti commenti di Emilio, vicedirettore, di una dozzina d’anni più anziano di lui, sarcastico e pungente. Come una coppia di comici collaudati da numerose serate, Emilio chiudeva o spezzettava gli aneddoti di Alberto con una battuta divertente senza perdere un colpo, mentre lui, compiaciuta spalla, si accingeva a concludere sorridendo. Non mancavano naturalmente spunti interessanti, sulla cultura di alcuni popoli, sugli usi e costumi e stare lì a tavola, dilatare così le cene e condirle di così tanti racconti e scenette era forse l’aspetto più interessante di questi incontri.

Nonostante praticassi arti marziali già da 20 anni circa, ero rimasto al mio mondo, alla mia città, conoscevo le verità e i retroscena dei personaggi che vivevano nell’arco di una decina di km da me.

I loro racconti giravano attorno a personaggi ben più famosi, apparsi su riviste, articoli, sfide, maestri italiani, europei, americani o asiatici, si confermavano o sfatavano miti e nomi di personaggi che avevano fatto della loro passione un vero e proprio mestiere.

Militavo in quell’associazione da circa tre anni e il terzo grado istruttore rappresentava un primo traguardo per avere il diploma e completare il loro programma di insegnamento. I gradi successivi sarebbero stati approfondimenti, soprattutto nell’arte del Silat indonesiano, arte che a me interessava molto marginalmente. Vedevo il Jeet Kune Do di Bruce Lee e il Kali-Escrima filippino, appresi da Alberto alla leggendaria Inosanto Academy, assai più diretti ed efficaci delle arti indonesiane, eleganti si, ma più appariscenti e per i miei gusti troppo arzigogolate.

L’entusiasmo iniziale, l’ottimismo e la convinzione che ciò che stessi apprendendo fosse genuino, stava scemando, i rapporti con Alberto erano andati deteriorandosi a causa di alcuni spiacevoli episodi e la mia sindrome di San Tommaso mi aveva portato ad accrescere dubbi e incertezze.

Ero solito approfondire alcuni aspetti di ciò che studiavo anche fuori da quella associazione, seguendo corsi, seminari, allenandomi con esperti del settore. Potevo raffrontare tecniche di Boxe Tailandese e Jiu Jitsu Brasiliano assorbite in poco tempo in seno all’associazione con le medesime mostratemi da esperti del settore che vi avevano dedicato anni e le mie convinzioni che tutto ciò che stavo “comprando” lì, stavano vacillando da tempo. Volevo essere certo che ciò che avrei poi insegnato ad altre persone fosse reale, efficace, meccanicamente e tecnicamente corretto.

Il collezionismo marziale è uno dei più grandi mali del settore, l’andare ai seminari e aggiungere tecniche e tecniche allenate in così poco tempo al proprio bagaglio è come tornare a casa e riporre sullo scaffale in bella mostra l’ultimo modello di aeroplano da collezione già montato e colorato da altri, in contrapposizione all’appassionato che il modello se lo costruisce da sé, se lo colora e ne cura tutti i particolari, finendo col conoscerli a memoria grazie a impegnative ore e infinita pazienza, portando per giorni sulle mani i segni e l’odore di pittura e colla.

Jeet Kune Do e Kali erano già un programma fin troppo ampio, così tanti settori, meccaniche differenti, pugni, calci, lotta, leve, proiezioni, bastoni, coltelli… ma aggiungervi anche quel poco di Silat era davvero superfluo. Da un lato, con il Jkd e Kali, vedevo la ricerca continua dell’efficacia, della semplicità, pur essendo io afflitto da tale collezionismo, dall’altro, con il Silat, l’opposto: posizioni tradizionali e applicazioni troppo elaborate. Per me il Silat era l’aspetto più tradizionale e meno efficace dell’associazione, divise colorate, sarong annodati in vita e strani movimenti dei polsi. Non molto di più. Un ulteriore tassello che Dan Inosanto, amico e allievo di Bruce Lee, aveva aggiunto alla lista di arti di cui era maestro e in quanto tale degno di essere preso in considerazione. Un altro di quei simboli che componevano il suo elaboratissimo logo composto da un sistema solare di altri logo, costituito da un sole centrale, il suo, una sorta di Triskel stilizzato, e una dozzina di satelliti: Jeet Kune Do, Kali-Escrima, Maphilindo Silat, Pencak Silat Mande Muda, Malaysian Bersilat, Shooto, Savate, JiuJitsu Brasiliano, Thai Boxe, Krabi Krabong, Kenpo e altri…

A quel tempo credevo ancora alla possibilità di poter conoscere tutte quelle arti e fortunatamente questa mia convinzione stava per essere smantellata per sempre da un perfetto sconosciuto.

“Sto cercando di convincerlo a venire a Milano per un seminario”, aggiunse Alberto, “si chiama Walter. E' olandese. Allenarsi con lui è un’esperienza molto dura. Quello che fa e il modo in cui lo fa è improponibile per qualunque palestra, troppo duro, assolutamente non commerciale. Entra nelle gambe in modo diretto e senza mezzi termini, si devono avere le ossa condizionate per allenarsi in quel modo. E’ un praticante assolutamente fuori dal comune. Vederlo e sentirlo è una vera e propria esperienza”. La mia curiosità era già stata risvegliata. Gli credevo, ma volevo vederlo. Un praticante di Silat duro, efficace, senza fronzoli.

Frequentando da anni tanti esperti internazionali, Alberto aveva avuto modo di vedere persone esperte, aveva un metro di giudizio e paragone valido da poter affermare ciò con convinzione e senza secondi fini. In altre occasioni ci aveva raccontato delle serate interessanti alla Inosanto Academy, mecca delle arti marziali in California, in cui vari esperti e atleti si alternavano in sparring e incontri, campioni di KickBoxing, Thai Boxe, Savate. Lui aveva avuto modo di vedere dal vivo atleti di valore e sentirgli dire che questo tizio che si chiamava Walter fosse ‘tutta un’altra cosa’ mi colpì profondamente.

Decisi all’istante di dare fiducia a Alberto e gli confermai da subito la mia presenza nel caso si fosse riusciti ad organizzare questo seminario. Terminò la sua descrizione di questo Walter con queste parole: “ha cercato di trasmettere quello che pratica, ma pochi riescono ad accettare quel modo di allenarsi, lo fa alla vecchia maniera, Old Fashion, come si faceva un tempo, non guadagnandoci nulla, quindi decide lui con chi allenarsi. Pochi continuano a sostenere quel tipo di allenamento così duro. Lui pratica come le Arti Marziali sarebbe dovute essere. C’è chi nell’ambiente dice ‘se vuoi vedere il vero KungFu, devi andare in Indonesia’ ”. “Ok, mi interessa molto”, gli dissi, “se riuscirai a convincerlo a venire, io ci sarò”. Prima di salutarci quella sera, dandoci appuntamento per l’esame del giorno dopo chiesi: “Come hai detto che si chiamava quello stile di Pencak Silat che pratica questo Walter?”. Alberto rispose deciso: “Pukulan Madura”.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Dottor Wolvie Killmister on May 05, 2011, 19:39:39 pm

Il frutto amaro....

Amaro come il veleno che riversate nei vostri colpi.
Sempre in guardia, sempre sul chi vive. Con la vita "fortemente inchiodata alla propria spina dorsale", per citare R.E.Howard riguardo i Cimmeri, la razza di Conan. Un altro guerriero che del proprio dolore ha fatto un vessillo

No, mi sa che se il Silat è il Black Metal, voi siete gli Immortal.
(anche se il paragone forse non ti dirà nulla, ti dirò solo che gli Immortal sono uno dei mei gruppi preferiti).

In altre parole, sono davvero felice di poterti leggere "live", Claudio.  :)



Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 06, 2011, 15:35:52 pm
PARTE III - chi vi scrive...

 

Ciò accadde a Dicembre e l’eventuale seminario si sarebbe tenuto a fine Gennaio 2005.

I due mesi che mancavano all’evento passarono tranquilli. Continuai il mio corso di Jeet Kune Do e Kali con i miei circa dieci iscritti, accennando solo ad alcuni più stretti la mia partecipazione a tale evento. Avevo seguito altri seminari dell’associazione e, stanco e disilluso, decisi che questa sarebbe stata l’ultima occasione di fiducia nei confronti di tali incontri. Avevo partecipato a seminari di diverse arti marziali, a partire dagli anni ’90.

Le arti marziali mi affascinarono fin da bambino. Qualunque sport di contatto mi affascinava: Pugilato, Lotta, Rugby e Football Americano inclusi. Ero un assiduo lettore di fumetti di super-eroi e gli atleti di tali sport era ciò che più si avvicinava ai personaggi protagonisti di tali fumetti.

Da bambino, agli inizi degli anni ’70, un pomeriggio mio padre e mio cugino mi portarono al cinema a vedere un film cinese. Rimasi bloccato alla poltrona con gli occhi sgranati osservando le gesta di quegli strani personaggi con gli occhi sottili che saltavano, gridavano e si davano spettacolari calci. Erano i miei super-eroi trasferitisi su pellicola, difendevano gli indifesi, riparavano i torti, e tutto ciò, senza volare, costumi aderenti, raggi cosmici, scudi pacchiani, martelli divini o appiccicose ragnatele.

I film di quel genere divennero la mia passione, uno valeva l’altro e solo anni più tardi scoprii che c’era una gran differenza tra quel primo film interpretato da un certo Bruce Lee che combatteva in quella fabbrica di ghiaccio e tutti gli altri.

Non perdevo occasione per cimentarmi in capovolte, salti, calci girati, improvvisando combattimenti con gli amici e quando dopo aver fatto atletica, nuoto e tennis per otto anni, fui libero di scegliere l’attività da praticare, allora, finalmente decisi di cercare un corso di Full Contact. Era il 1984, il Karate non mi attirava, il KungFu, l’arte di Bruce Lee, era appena sbarcato a Napoli e a differenza della controparte giapponese, in cui i nomi dei maestri erano affermati e collaudati, per le arti cinesi circolavano pochi nomi, personaggi giovani e con poca esperienza.

La divisa bianca del Karate, le forme a vuoto, quei movimenti che apparivano legnosi, alcuni amici che avevano praticato e articoli su riviste specializzate, mi spinsero verso il Full-Contact.

Ciò che all’epoca veniva definito Full-Contact e che in definitiva era una versione del Karate meno tradizionale, più sportiva, senza divise, con l’aggiunta di tecniche di braccia prese dal pugilato e in cui si combatteva con guantoni e calzari imbottiti. Bill Wallace, Joe Lewis, Dominique Valera, Benny Urquidez divennero i principali esempi da seguire.

Praticai la KickBoxing per circa nove anni, ma l’aspetto agonistico era quello che mi attirava di meno. Partecipai a un paio di campionati regionali, classificandomi primo e terzo, ma lo scopo del mio allenamento nelle arti marziali era il raggiungimento di un buon grado di difesa personale.

In quei nove anni mi allenai con molti amici praticanti di altre arti marziali e notai una grande differenza. Io ero abituato a colpire e prendere colpi, chi proveniva da approcci tradizionali molto meno e si trovava in grande imbarazzo in un combattimento, anche se leggero. Tutta quella tradizione, quei formalismi, quella insita filosofia sventolata senza cognizione di causa, quelle frasi di sdegno pronunciate nei confronti di chi, come me, praticavano non un’Arte ma un semplice sport.. venivano sbriciolati al primo pugno alla mascella. Finii con il vedere in modo negativo le arti marziali tradizionali e i suoi praticanti.

Agli inizi degli anni ’90, stanco della Kick Boxing, decisi di dare un’occhiata all’altro lato della medaglia e mi presi un anno sabbatico tuffandomi nella tradizione. Amavo i calci e provai il Taekwondo coreano. Mesi di colpi a vuoto senza alcun contatto e battutine vergognose verso le altre arti marziali, non senza un discreto razzismo verso la Kick Boxing. Ma io guardavo quelle cinture nere che dall’alto del loro funereo colore di cintura guardavano con sufficienza i principianti, me incluso, mentre sapevo che avrei potuto metterli ko o affrontarli senza il minimo problema. Invece, ci si allenava divisi. I gradi avanzati col maestro per il quale io avevo scelto l’arte coreana, un allenamento dinamico e divertente, i nuovi con una cintura colorata, un ragazzino messo lì per intrattenerci con forme a vuoto e robetta per pensionate.

Lasciai e nella sala accanto del palazzetto dello sport vidi una cosa più divertente: il Ju-Jitsu tradizionale giapponese. Non ero un grande appassionato di cultura giapponese e tantomeno coreana, all’epoca studiavo lingua cinese all’Universita Orientale e, mentre provavo queste arti, allo stesso tempo seguivo ripetizioni di lingua cinese con il lettore madrelingua dell’università, tale Yan de Zao e imparavo il Taiji Quan con sua moglie. Il Ju-Jitsui era divertente, leve e contro leve, per me erano argomenti nuovi, ma, anche lì… niente sparring, niente combattimento, solo tecniche con compagno consenziente con attacchi stilizzati e preordinati. Lasciai deluso dopo alcuni mesi. Allestii una piccola palestrina nella mia cantina, con panche per pesi e sacco, e iniziai ad allenarmi per fatti miei.

Continuavo ad allenarmi con chi capitasse e divenni molto amico di un istruttore di KungFu stile Mantide Religiosa. Mi facevo mostrare le tecniche da lui, io mostravo ciò che conoscevo, ma sul versante combattimento non si andava d’accordo. La richiesta che mi veniva fatta era di non colpire, neanche piano. Vi era una totale disabitudine ai colpi e l’allenamento diventava frustrante quando durante il combattimento, seppur leggero, il mio amico si girava di spalle per non prendere colpi e allo stesso tempo ostentava una certa aria da maestro. Ero sempre più perplesso.

Scovai con grande gioia un corso di Capoeira e mi immersi in quei ritmi, in quella cultura e storia affascinante, lasciando che il suono del Berimbau e delle percussioni facessero da colonna sonora dei miei allenamenti. Non c’era sparring, eravamo cinque persone, la sala di allenamento piccola, ma Marcos, il maestro, era strepitoso. L’esperienza finì prima dell’estate, quando il nostro Mestre decise di trasferirsi in Canada. E’ attualmente uno dei più famosi e importanti maestri brasiliani residenti nel Nord America.

Da pochi libri iniziali, la mia libreria marziale s’era accresciuta di libri su qualunque arte marziale. Mi interessavano tutte. Di pari passo, era aumentato il mio interesse per la cultura orientale, la filosofia e le religioni, nonché lo studio della lingua cinese accompagnato da esami di religioni e filosofie dell’Asia Orientale e dell’India. Grazie ai consigli e ai libri di testo per gli esami, avevo la possibilità di approfondire i miei argomenti preferiti, il Taoismo, il Buddhismo, lo Zen, la storia e le civiltà orientali. Ciò mi trascinò, col tempo, a riaffrontare le filosofie occidentali. Non potevo conoscere e approfondire quelle di popoli così lontane e lasciare all’oscuro e a poche nozioni apprese al liceo di quelle a noi più vicine.

Grande ironia, mi trovavo a disquisire di arti marziali con praticanti tradizionali, che mi sciorinavano lezioni di filosofia orientale da fustino Dixan, rubacchiate su un paio di libretti sul loro stile, mentre io, praticante di un bastardo sport da combattimento, avevo approfondito, letto, riletto, sottolineato, riassunto e assorbito in anni di passione e studio accademico quella cultura che faceva da pilastro dei loro sistemi di combattimento.

Avevo già cominciato da anni a leggere libri su Bruce Lee, scoprendo con stupore, che fosse un appassionato di filosofia e di come avesse rivoluzionato l’approccio alle arti marziali tradizionali, ponendo dubbi, sperimentando, mixando l’allenamento tradizionale a quello moderno con metodologie prese in prestito da altri sport. Pesi, diete, l’uso dei guantoni, la sperimentazione reale delle tecniche. Ciò che più mi colpì fu l’aspetto filosofico. Diverse filosofie, come diversi stili, inglobati per formarsene uno personale. Scoprii attraverso lui i testi di Krishnamurti, Alan Watts, sul pensiero positivo, la psicocibernetica, l’automotivazione, la psicologia, i linguaggi del comportamento, la programmazione neurolinguistica. Un argomento tirava l’altro e negli anni collezionai centinaia di libri su argomenti più disparati. Nei miei viaggi negli Stati Uniti mi fornii di altro materiale introvabile in Italia, libri, videocassette.. e iniziai a scrivere la mia tesi universitaria in filosofia e in particolare sul Jeet Kune Do di Bruce Lee, ma non affrontato dal punto di vista tecnico, quanto da quello filosofico. Seppi delle persone che erano state suoi studenti, che alcuni di loro insegnavano l’approccio al combattimento di Lee. Venni così a sapere di Dan Inosanto, di Ted Wong, di Jerry Poteet, di Richard Bustillo e altri suoi allievi che avevano aperto loro accademie negli Stati Uniti.

Nel frattempo, e ciò duro dal 1994 al 2000, condussi un corso di Difesa Personale in una palestra. Fu una discreta esperienza. Molte persone vennero a provare e molti erano praticanti di altre arti marziali. Chiamai così ciò che facevo, ma in realtà era un mix di esperienze che avevo fatto, con base di Kick Boxing, con colpi sporchi, alle ginocchia, all’inguine, misto a Ju-Jitsu e altre tecniche di difesa personale apprese ai seminari. Migliorai tanto in quegli anni e l’insegnamento mi diede modo di capire e sperimentare tante cose.

Nel 1993 partecipai al primo seminario di Jeet Kune Do e da lì in poi partecipai ad altri. Furono le prime volte che mi trovai di fronte all’arte del Kali-Ecsrima filippino. Trovarmi a seguire seminari di personaggi che erano stati amici e allievi di Bruce Lee era incredibile. Molti di loro erano stati, in seguito alla morte di Bruce Lee, allievi del leggendario Dan Inosanto, suo principale amico e allievo. Costui era un famoso maestro di Kali-Escrima e aveva inglobato nel Jeet Kune Do l’uso e le metodiche dell’allenamento con i bastoni e coltello. Pur scindendo sempre il Jeet Kune Do dal resto, Inosanto era l’ambasciatore delle Arti Marziali. Lui era stato capace di unire e non dividere i diversi approcci, studiando e promulgando arti prima sconosciute.

Con le arti marziali filippine vi fu amore a prima vista. A cominciare da quell’odore bruciato che si sviluppava a seguito del contatto prolungato tra bastoni. La storia del popolo filippino, i Bothoan, le capanne in cui gli anziani tramandavano le arti guerriere ai giovani delle loro tribù, le guerre per l’indipendenza, i diversi popoli presenti nelle varie isole, le leggende dei guerrieri Moros di etnia musulmana del Sud delle Filippine, divennero un argomento di principale interesse. Un mondo di tagliatori di teste, pirati, galeoni spagnoli bloccati dalle barriere coralline incapaci di utilizzare i cannoni e costretti a combattere corpo a corpo con gli indigeni muniti di lance e cerbottane, le movenze marziali nascoste in danze e rappresentazioni teatrali durante la dominazione spagnola, e poi, secoli dopo, gli attacchi suicidi dei temibili Mangdirigma che correvano tra le fila nemiche durante la dominazione americana falciando il più vasto numero di ufficiali possibile, e i combattimenti nella giungla tra gli scout filippini armati di machete, questa volta affiancati dagli americani, contro i giapponesi armati di katana e baionetta durante la II Guerra Mondiale. Fino alle diverse scuole e stili, i diversi tipi di bastoni, i maestri leggendari e le loro storie, le sfide tra scuole, i Patayan, i combattimenti clandestini senza regole fino alla morte di uno dei combattenti.

Così, la mia passione, come per molti che si erano avvicinati all’approccio di Lee, s’era poi spostata sull’uso di bastoni e coltelli, il machete, i coltelli di varie fogge, il kriss e un efficace metodo di Boxe sporca da strada che alle tecniche di Boxe mutuate dall’uso del coltello, aggiungeva l’uso di gomiti, colpi a mano aperta, ginocchiate, sbilanciamenti e testate, chiamato Panantukan.

Assistevo perplesso a come tanti esperti di arti marziali filippine si appassionassero alle arti marziali indonesiane. Il percorso tipico era Jeet Kune Do, Kali, Silat indonesiano.

Ma tutto era così diverso.

Tuttavia, storicamente e antropologicamente, il passo verso le arti marziali indonesiane era davvero breve.

Scelsi così di seguire il corso istruttori di quell’associazione, non per il Jeet Kune Do, ma per studiare in modo approfondito le arti marziali filippine, non essendoci nella mia città nessuno con cui studiarle.

Sarei stato io il primo.

 

A poche settimane dall’evento, Alberto ci mandò via mail l’invito ufficiale ed ebbi la conferma definitiva: si sarebbe fatto, a Milano, fine Gennaio, a porte chiuse, a numero chiuso, ammessi solo gli istruttori e gli affiliati dal grado blu in poi. Ci venne chiesto il massimo riservo sulla notizia e altrettanta puntualità. Superato un certo orario e chiuso il conteggio dei presenti le porte della palestra comunale di Sesto San Giovanni sarebbe stato chiuse e i ritardatari lasciati fuori. In seguito, sul posto, ci sarebbero state date ulteriori spiegazioni. Aggrottai la fronte dubbioso quando lessi queste righe. A metà strada tra il senso del ridicolo e l’ironico pensiero che sotto ci fosse chissà quale segreto, magari la costituzione di una nuova setta carbonara o l’organizzazione di qualche golpe.

Grazie a una foto allegata all’invito, ebbi l’occasione di dare un volto a quel Walter di cui mi aveva parlato. Una concisa descrizione e presentazione del marzialista e una sua curiosa foto. Un individuo per nulla robusto, con un vago look anni ’70, i capelli un po’ alla Elvis, un viso che anni dopo un amico descrisse come “il fratello di Rupert Everett dopo un vistoso intervento di maxillo-facciale”, con indosso ampi pantaloni neri corti appena sotto il ginocchio, una fascia rossa annodata in vita e un'inguardabile e assai poco marziale maglia da gondoliere bianca e rossa. “Che tipo strano!” pensai. La posa della foto anche era caratteristica. Una sorta di passo con il braccio opposto lì in bella mostra. Una mano aperta in secondo piano posta accanto all’altra, in primo piano e chiusa a pugno, come a fare da scudo. Non capivo l’utilità di quella posizione, abituato alle tipiche guardie in stile pugilato o Kick Boxing.

Ebbi modo di parlare al telefono con Alberto per informazioni riguardante l’organizzazione, l’attrezzatura da portare, notizie sull’albergo per dormire… e non mi risparmiai una battuta su quella maglietta a strisce. Alberto mi riassicurò sulle qualità tecniche di Walter aggiungendo: “beh, magari, la maglietta gli chiediamo di toglierla..”. Solo una cosa mi lasciò colpito dalla foto. Gli avambracci di Walter. Non vi era differenza tra la parte dell’avambraccio più vicina al gomito e il polso. Era un tutt’uno. Un unico lingotto di carne dal gomito ai polsi e, alla fine, una grande mano ossuta e nervosa. Un largo cilindrico scettro sormontato da un grosso diamante fatto di nocche. Mi soffermai poco su quella visione. Da lì a due settimane avrei saggiato la pesantezza delle ossa di quelle mani, una delle quali recanti un grosso strano anello, incidendomi nella memoria la sua sensazione dell’impatto misto all’odore di colonia e tabacco.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on May 06, 2011, 15:55:34 pm
per restare aggiornato
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: jivalla on May 06, 2011, 17:33:12 pm


Hai praticato anche thai con Aldo Chiari? .... Considerazioni di quell'Arte?


Grazie.


Jivalla
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Samurai77 on May 06, 2011, 17:39:57 pm
sei spettacolare claudio! un grande!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 06, 2011, 18:36:44 pm
Hai praticato anche thai con Aldo Chiari? .... Considerazioni di quell'Arte

un pò... e ho seguito gli allenamenti per un corso allenatori.
Bello. Soprattutto per l'approccio di Aldo.
Bello il modo di allenarsi con i Pao.
Il fatto è che avevo già la testa nel Pukulan, ancora una mentalità da collezionista e il ritmo di combattimento della Thai mi piaceva meno di quello della Kick, + pugilistico, dal ritmo + spezzato e meno da cecchino (per usare un termine usato da Aldo)
L'altro mio desiderio era fare Bjj. Ma richiede tempo e impegno e io sono 'Uno' ma non 'Trino'.

Grazie Sam :-)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on May 06, 2011, 19:05:49 pm
seguo con interesse

Claudio, non ci lasci col culo a terra, vero!? l'hai buttata giù bene, ora però pretendiamo il seguito della storia :sur:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 06, 2011, 19:17:44 pm
già scritto 110 pagine...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on May 06, 2011, 19:20:38 pm
 :sbav: :sbav: :sbav: :sbav: :sbav: :spruzz: :spruzz: :spruzz: :spruzz: :spruzz:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Wa No Seishin on May 06, 2011, 19:54:30 pm
L'altro mio desiderio era fare Bjj.

:sur:


Ma richiede tempo e impegno e io sono 'Uno' ma non 'Trino'.

Quanto ti capisco... :(
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 07, 2011, 15:33:55 pm
PARTE IV - E venne il giorno...

 

Il seminario era stato programmato per le sei ore del sabato pomeriggio e le sei della domenica mattina. Arrivai a Milano a metà mattinata e passai il tempo a casa dei miei parenti residenti lì. Pranzai da loro, parlando di diversi argomenti senza risparmiargli il mio entusiasmo, misto a timore di restare deluso, per ciò che stavo per vedere. La mia valigia era piena solo del necessario per partecipare a questo incontro, più qualcosa per la serata e la partenza del giorno dopo. Nessun bastone, coltello, protezioni, guantoni o attrezzatura tipica. Ci era stato detto di portare e indossare semplicemente la divisa dell’associazione. Ritenni opportuno non portare la maglia da istruttore, per rispetto a coloro che avrebbero condotto gli allenamenti. Dopotutto, erano loro gli istruttori quel giorno, trovavo quindi assolutamente fuori luogo indossare la maglia recante scritta Instructor. Non tutti agirono come me … a loro spese.

Poche volte nella mia vita ho desiderato un’astronave o una capsula per il teletrasporto. Quel giorno fu uno di quei pochi. Non vedevo l’ora di iniziare. Il tragitto da casa dei miei cugini fino a Sesto San Giovanni fu accompagnato dalla speranza di poter davvero vedere ciò che era stato descritto da Alberto: un’arte marziale come quelle dei vecchi film, trasmessa, allenata e praticata alla vecchia maniera. Qualcosa di assolutamente fuori dai canoni moderni.

Giunsi lì, salutai e ringraziai mio cugino per il passaggio e iniziai a vedere alcuni volti conosciuti dell’associazione. Chi si fumava l’ultima sigaretta, chi si godeva la freddissima giornata di sole all’aria aperta. Entrai nella struttura.

Era stata allestita una sorta di segreteria occasionale, con alcuni istruttori che davano il benvenuto agli istruttori che giungevano da fuori, chiedendo loro il tesserino associativo e raccoglievano le iscrizioni. Ci era stato spiegato che le persone che avrebbero condotto il seminario avrebbero percepito esclusivamente il rimborso spese: vitto, alloggio e viaggio. Non accettando null’altro, come loro abitudine, come i loro maestri avevano trasmesso loro.

Sessanta euro per dodici ore di allenamento, visto lo standard richiesto generalmente, era una quota più che ragionevole. Gli esperti olandesi sarebbero stati tre. Walter e suoi due amici e compagni di allenamento. Sbirciai oltre la scrivania delle presenze e diedi un’occhiata in giro. Alcune facce viste in foto, conosciute grazie alle fotografie presenti sulle pagine pubblicitarie dell’associazione sulla rivista “Samurai”, o notate nelle pagine dei curricula del sito associativo, altre erano ben più note, i miei colleghi di corso istruttori, quasi tutti del Lazio. Un paio di sorrisi lanciati da lontano e un’altra occhiata ai presenti prima di entrare nell’ampia sala del palazzetto. Un volto nuovo: uno spilungone appoggiato al muro di mattoni rossi. Sicuramente più di quaranta anni. Osservava le persone che arrivavano fumando una Marlboro e cacciando dalla bocca nuvole di fumo e accompagnandole verso l’alto con un movimento della testa. Giacca di jeans, jeans e polo rossa. Mocassini color cuoio. Espressione serena e simpatica, vagamente sorridente. Avrei detto che il suo atteggiamento fosse quello di qualcuno probabilmente curioso quanto me per ciò che da lì a poco sarebbe accaduto. Tutti noi sicuramente conosciamo l’espressione “petto in fuori”. Ecco, la sua postura era quanto di più lontano. Spalle in avanti, braccia scese lungo i fianchi. Un’aria quasi dimessa. Allegra, curiosa, ma sicuramente non un artista marziale che vuole mettersi in mostra. Ci guardammo per qualche secondo. Cercai di associarlo a qualche viso conosciuto, ma, nulla. Pensai che fosse il fratello maggiore di qualche istruttore, qualche accompagnatore, un curioso, ma Alberto non ne avrebbe accettati. Nessuno spettatore ci disse. Solo chi pratica potrà stare all’interno del palazzetto. Niente macchine fotografiche, niente telecamere, cellulari spenti.

Entrai. Cercai con lo sguardo Alberto e Emilio, li salutai, mi chiesero come fosse andato il volo. Solita frecciatina di Alberto: “siamo riusciti a trascinarti a Milano”. Sorrisi. “E già!”, pensai tra me e me. “E già”, ancora penso tra me e me.

Baci e abbracci ai miei colleghi di corso, Fabio e Corrado da Ferentino, Andrea, l’istruttore più esperto, da Frosinone, Simone da Aprilia, il simpatico Giovanni da Alba, Piemonte. Tutti noi con la maglia neutra e non da istruttore. Quella che si da ai principianti. Tutti tranne il più “esperto”.

Come a tutti i seminari, non mancò il mercatino. Ecco una bella schiera di Sarong, tipico indumento multiuso indonesiano, indossabile come tracolla, come gonna, da mettere sulla divisa da Silat. Tutti i praticanti di Silat che si rispettino hanno un Sarong. No Sarong? No Silat! Io non mi ritenevo un Pesilat (praticante di Silat), pertanto, ritenni di restare con i pantaloni di felpa neri dell’associazione.

Ne comprai comunque tre. Due per me, stesso disegno: uno nero e argento, l’altro rosso e argento. Il terzo, blu e d’orato, da regalare.

Il campo di basket che sarebbe stato il nostro occasionale Tatami era gelido. Faceva davvero freddo. Un coraggioso chiese ad alta voce: “con o senza scarpe?”, Alberto si girò verso delle persone che non avevo notato, indaffarate a scaldarsi le chiappe sui caloriferi. Erano lì. S’erano accaparrati le uniche fonti di calore disponibili, incollati al muro. Sembravano la locandina de “I Soliti Sospetti”. Erano in riga appoggiati al termosifone difendendo la loro postazione come i naufraghi difenderebbero i pochi spazi disponibili sulla scialuppa di salvataggio dagli attacchi dei sopravvissuti ancora in acqua e inseguiti dagli squali. Un tipo dalla pelle scura rispose sorridendo beffardo: “No shoes!”, “Niente scarpe!”.

Bestemmiando in Javanese ci togliemmo scarpe e calzini. Il parquet gommoso era un freezer. Se avessimo preso qualche botta forte sarebbe bastato poggiare la parte colpita a terra risparmiando il ghiaccio. Il Jack protagonista di Titanic interpretato da Di Caprio si sarebbe gettato in acqua per proteggersi dal freddo. Ma la mia attenzione era catturata da quei tizi incollati come manifesti elettorali al calorifero. Erano tre. Quello scuro di pelle alto circa un metro e settanta. Circa la mia età all'epoca.. trentasette anni. Avrei detto un indonesiano o il tipico colore scuro di tanti calciatori olandesi. Una leggera peluria sotto al labbro inferiore. Non magro, capelli ondulati e due occhi irrequieti, leggermente fuori dalle orbite, grandi e sorridenti. Era quello che chiacchierava di più, rivolgendosi agli altri due.

Accanto a lui il tipico personaggio che si potrebbe definire “Nord Europeo”. Non più di 40 anni. Capelli chiari, corti, fisico atletico, occhi azzurri. Non molto alto. Un metro e settantacinque circa. I lineamenti tipici dei popoli nordici: zigomi alti, naso a patata, guance tornite e colorite, bocca carnosa. Discuteva e rideva con l’altro dalla pelle scura. Sarebbe potuto essere un modello di una pubblicità delle compagnie aeree olandesi.

Restai sbalordito quando rividi quella terribile e stramba maglia a strisce bianche e rosse. Avevano avuto il coraggio di indossarla niente di meno anche al seminario. Allora non era una maglia a caso messa lì per una foto. Doveva essere una vera e propria divisa o qualcosa del genere. Sotto, ampi pantaloni neri, corti sotto al ginocchio e in vita un curioso e carnevalesco alto cinturone in cuoio, chiuso da un’enorme fibbia dorata. Ai lati, all’altezza dei fianchi, il cinturone portava delle tasche fatte dello stesso materiale del cinturone. Sopra alla maglia una giacca nera, aperta, le maniche rimboccate fino ai gomiti. Sul petto sinistro un piccolo logo rotondo.

L’immagine dei gondolieri venne subito sostituita da quella dei pirati. In effetti, i gondolieri hanno le strisce nere, più sottili. Sono i pirati o i marinai a indossare spesso indumenti a strisce bianche e rosse. Ciò che in seguito avrei appreso si chiamasse Naval Jack.

Strana, pittoresca, originale, tutto si sarebbe potuto dire di quella divisa, ma non che non catturasse l’attenzione e che fosse in un certo qual modo perversamente affascinante. Una vera provocazione.

Indossata da un soggetto qualunque di certo avrebbe suscitato qualche ilarità, ma Alberto ci aveva descritto le qualità di questo olandese di nome Walter e nessuno avrebbe pensato di andare lì a prendere per i fondelli quei tizi per l’uniforme che s’erano scelti. Dopotutto, si doveva loro il rispetto che si deve a chi star per mostrarti la propria esperienza, per di più, senza guadagnarci nulla.

Walter … ah, si, dimenticavo. Per esclusione, era il terzo dei tre. Il più alto, il più taciturno, il meno olandese nell’aspetto, dall’andatura dinoccolata, il passo lungo, l’espressione di chi non riesce a capire su quale pianeta sia capitato. Diverso da come lo ricordassi nella foto. Qualche capello in meno, più magro, non muscoloso, occhi scuri, naso leggermente adunco, una mascella generosa. Era il tipo curioso vestito di jeans che squadrava i partecipanti e che fumava all’entrata del palazzetto.

Minchia!

Avrei ripetuto quell’esclamazione per tutte e dodici le ore del seminario …. e oltre!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Dottor Wolvie Killmister on May 07, 2011, 16:00:21 pm

Il Sig. Walter mi venne descritto già da Ottavio  XD , quindi, anche se immagino come andrà a finire, sto già godendo come un echidna[1]  :gh:
 1.  Copirait Fabius Thume Phacente
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on May 07, 2011, 16:25:50 pm
Dai, su, bisogna arrivare almeno al xxxv capitolo, oggi.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: bushi highlander on May 08, 2011, 00:08:48 am
Sono proprio curioso di sapere come è andata a finire...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Manut on May 08, 2011, 01:18:51 am
se mi dici che poi ne farai un romanzo, lo comprerò anche sapendo la fine
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 09, 2011, 10:49:26 am
PARTE V - Si comincia...

 

Mi voltai verso Simone, l’istruttore di Aprilia, “Perché non vai a dirgli che quelle maglie sono orribili?”, Simone rise e mi rispose “diglielo tu, io ti seguo”. “Ma dai, non fare il vigliacco, tu sei più grosso, anche a te non piacciono quelle magliette. E quei pantaloni così larghi? E il cinturone? Ne vogliamo parlare?”. Lo afferrai per il braccio, simulai di volerlo portare da uno dei tre olandesi, alzai un po’ la voce “ehm…. scusate, c’è questo ragazzo che vorrebbe esprimere un commento sulla vostra divisa”. Simone rise divincolandosi.

Un battito di mani. Alberto attirava l’attenzione per radunarci.
Le porte vennero sprangate, i cellulari spenti, le telecamere e le macchine fotografiche confiscate e fatte a pezzi. Scherzo!!
Si cominciava.
Alberto, Emilio e gli olandesi da una parte. Noi partecipanti, poco più di venti, ospiti esclusi, schierati di fronte a loro.

La voce impostata e orgogliosamente emozionata di Alberto introdusse i tre ospiti. Dopo aver detto loro qualcosa a bassa voce in inglese, si voltò verso di noi e ci spiegò brevemente cosa stavamo per fare. Le presentazioni: Walter, s’era capito chi fosse. Quello alto. Anand, quello scuro, indonesiano o chissà cosa. Olivier, il biondo. Quello con la faccia più simpatica. Il modello delle Versace Airways.

Mi asterrò dal riportare i cognomi, come procedendo con questo mio diario, mi asterrò dal riportare altri dettagli e particolari che non siano strettamente informazioni personali.
Alberto concluse il suo cappello introduttivo con la frase: “signori, state per vedere qualcosa di assolutamente unico”. Sorrisi. Un sorriso di sfida. Volevo proprio vedere.

I tre si guardarono, borbottarono in lingua olandese. Anand, lo scuro, guardò e chiese qualcosa a Olivier. Questi bofonchiò qualcosa a Walter, e Walter con espressione falsamente distratta, fintò il gesto di non aver capito. Alzò spalle e sopracciglia aggrottando la fronte, abbassò gli angoli della bocca in un’espressione indifferente e fece il gesto con la mano a Olivier di farsi avanti. Avrebbe parlato Olivier. Anand sorrise, Walter si incamminò come per assistere alla scena dal nostro punto di vista, grattandosi la nuca con fare innocente e scherzosamente non assumersi alcuna responsabilità per quello che Olivier avrebbe detto. Quest’ultimo si fece avanti con aria rassegnata ma gratificata. Una scenetta molto poco formale per noi abituati al maestrone impostato e con aria seriosa che si incontra spesso ai seminari internazionali.

Capimmo subito che sarebbe stato un seminario atipico, informale e che tra quei tre ci fosse una profonda amicizia e confidenza. Walter era decisamente il più anziano. Il punto di riferimento dei tre. Nonostante avesse l’aria più distratta e spaesata. Nonostante non venisse da loro palesata la benché minima forma di gerarchia, decisamente Walter sembrava il fratello maggiore.

Olivier parlò per circa dieci minuti.

Ci fece un breve sunto sulle arti marziali indonesiane, sui principali stili. Ci parlò di Cimande, il principale stile dell’isola di Java. Pare che molti, se non tutti gli stili di Java provengano da lì. Introdusse il Pukulan. Riporterò esclusivamente i punti principali della sua introduzione, riservandomi i particolari e gli approfondimenti in altre pagine del mio diario.

Si rivolgeva a tutti, non ostentando alcuna emozione o imbarazzo a stare avanti a diverse persone.
Il suo sguardo cadeva su ognuno di noi, permettendoci di non distrarci. L’inglese perfetto, la voce alta e chiara, intervallata dalla traduzione italiana di Alberto per i non anglofoni. Gesticolava quel tanto che bastasse per accompagnare la sua spiegazione enfatizzando alcuni passaggi. Mi ricordò quelle spiegazioni che le hostess di volo fanno prima del decollo, indicando le uscite di emergenza, i salvagente e le mascherine per l’ossigeno. Solo in seguito appresi che Olivier era uno steward delle linee olandesi Klm.

Questi i passaggi fondamentali: “Pukulan è l’Arte del Colpire. Pukul vuol dire colpo. E non importa cosa accade, cosa fa l’avversario o l’aggressore. A noi interessa colpire. A differenza di altri stili di Pencak Silat, la nostra strategia principale è questa. Colpire! Mantenere costantemente l’iniziativa, dall’inizio alla fine della disputa, camminare, camminare e colpire. Niente passi indietro, niente parate, schivate o azioni difensive. Noi avanziamo e colpiamo. L’importante è farlo sempre seguendo un principio cardine. Quello della ‘via più breve’. Pukulan, in definitiva è la ‘via più breve’. Il Pukulan è diverso dal Pencak Silat. E’ una cosa indipendente. Il Pukulan è Pukulan”.

Ce lo disse con un’espressione tranquilla, sorridente e serena. Come se non stesse parlando di uno stile da combattimento, ma di alcune pagine del Vangelo.
Venne il turno di Anand. Un rapido saluto e si partì con i giri di campo per riscaldarsi un po’.
Nessuna novità, tutti li conosciamo. Walter e Olivier parlavano con Alberto e Emilio indicando delle zone del palazzetto. Ne scelsero una e si accovacciarono per iniziare ad attaccare a terra del nastro adesivo. Una x, un +, unirono i vertici, una serie di triangoli in sequenza. Sembrava una girandola. Triangoli racchiusi in quadrati che creavano altri triangoli. Linee rette che indicavano in ogni direzione intersecandosi con altre linee rette. Una figura geometrica ne creava un’altra. Tutto nello spazio di poco meno di due metri quadri.

Il riscaldamento di Anand si fece più intenso. Alcuni esercizi erano tipici delle arti marziali orientali, altri sembravano delle figure che avevo visto in alcuni capitoli sulle arti marziali indiane di libri di arti marziali che possedevo. Poi eseguimmo degli esercizi di respirazione, accompagnando il respiro a movimenti delle braccia. Un misto di yoga e respirazione qi gong. Sembrava dovessimo espellere tutta la tensione. L’inglese di Anand era corretto e morbido nella pronuncia. Le c, le s molto arrotate. Ci descriveva nei dettagli gli esercizi tenendoci a specificare il significato e l’utilità. Durò circa dieci minuti. Walter e Olivier avevano terminato da un po’ il loro disegno a terra fatto col nastro adesivo. Ci avvicinammo tutti con estrema curiosità, cercando di decifrare l’enigma che vedevamo al suolo. Sembrava qualcosa uscito da un libro di Dan Brown. Cercavamo di immaginare cosa farci, come muoversi lì dentro, come quel tracciato andasse utilizzato.

Ci sedemmo a terra e Olivier ci spiegò a grandi linee i passi principali. Il footwork del Pukulan. Langka. Uno dei termini più importanti del Silat indonesiano. Langka viene spesso utilizzato per indicare una posizione, ma in realtà vuol dire spostamento, passo. La “Tre”, la “Quattro”, la “Cinque”. I tre passi/posizioni fondamentali dello stile. Ok. Dov’erano “Uno” e “Due”. “Uno” e “Due” semplicemente non esistevano. Il nome dei Langka non era dato dal loro ordine cronologico di apprendimento ne da alcun tipo di progressione. “Tre” descriveva un triangolo, tre erano i lati descritti dalla meccanica corporea per eseguirla, tra piedi e punto di impatto. La “Tre” era per camminare. “Quattro” perché si era su un lato di una quadrato, a piedi paralleli. “Quattro” era per partire e di passaggio. “Cinque” era su una linea retta. “Cinque” è per bucare. Poi appresi che “Five is to finish!”. Per descrivere la “Cinque” occorrerebbe un trattato a parte. Per apprendere la “Cinque” anni di allenamento. Ma di questo ne parlerò poi. Olivier ci descrisse il footwork con degli esempi e con leggeri passi nelle figure geometriche disegnate. Facile da guardare ma difficile da eseguire. Non guardava a terra. Non controllava dove fossero i suoi piedi. Ma si trovavano esattamente dove le linee si incontravano. Nessuna sbavatura. Una precisione millimetrica. I punti cardine della girandola stilizzata si trovavano a un metro esatto l’uno dall’altro. Il nastro adesivo era stato posto a terra con l’ausilio di un metro e un metro esatto erano i passi di Olivier. Ci mostrò come si potesse raddoppiare o dimezzare ogni spostamento, immaginando e proiettando mentalmente ulteriori figure geometriche all’interno di quella più grande, ma anche come fosse possibile proiettarne altre fuori, moltiplicando linee, direzioni e angoli. Il Pukulan ha una sua matematica e una sua geometria. La sua matematica appartiene e funziona in una dimensione alternativa alla nostra realtà. Non sono pazzo, lo state pensando, lo so. Ma nel Pukulan, ad esempio, quattro è la metà di tre e tre è la metà di cinque. Così come quattro è un terzo di cinque e tre ne rappresenta i suoi due terzi. Non solo. Possiamo tranquillamente concludere che quattro più tre fa cinque.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 09, 2011, 10:57:57 am
PARTE VI - dalla teoria alla pratica

Olivier non risparmiava particolari e esempi, invitando i presenti a chiedere se vi fossero domande, curiosità o dubbi. Anand e Walter aggiungevano qualche loro esempio o completavano il quadro generale sul footwork del Pukulan.

Passammo poi ai colpi principali e loro relative linee. Ogni colpo del Pukulan segue una linea precisa in base alla posizione o spostamento. Olivier illustrò i colpi eseguiti dalle posizioni sopradescritte. Alcuni seguivano la linea delle spalle, altri cercavano una ‘linea centrale’, intersecando le linee descritte a terra, altri seguivano una singola linea di tutto il corpo. I piedi indicavano alcune bisettrici, le ginocchia assecondavano diligentemente le direzioni dei piedi, le gambe ben piegate, mai ferme, variavano il livello e l’altezza con gli spostamenti e come due stantuffi erano il motore dell’intera macchina. Le spalle si allineavano ad altri angoli o al medesimo delle gambe e le braccia colpivano, si aprivano e scattavano verso il vertice di altri angoli. Leggere i movimenti, quel giorno, fu impossibile. Si intravedeva il senso, ma comprenderlo era tutt’altra cosa.

Per loro era tutto naturale, spontaneo e meccanico. Biomeccanica è il termine che più si può associare a quei movimenti geometrici. Non andava mai fuori asse, il bilanciamento era sempre equamente distribuito tra le due gambe, le posizioni salde pur esprimendo dinamicità.

Armonia, precisione e potenza erano mescolati con esperienza come se stesse bevendo un bicchier d’acqua. Praticammo alcuni colpi di base, ci venne spiegata la respirazione da seguire e come accompagnare i colpi con entrambe le mani. Spesso una era aperta, l’altra chiusa a pugno. Una faceva da supporto all’altra. Coordinare quel semplice gesto in velocità non era facile.

Olivier non era un marzialista qualunque. Presidente della sede di Amsterdam di una delle associazioni per la diffusione delle Arti Marziali Indonesiane più importanti al mondo, pluricampione di forme e esperto di più stili: Sebandar, Sera, Cimande, Cikalong. Olivier aveva vissuto a Java apprendendone l’idioma alla perfezione e conosciuto persone, luoghi e maestri a cui pochi occidentali era stato permesso accedere.

Fu il turno di Walter. Il suo fisico meno armonico rispetto a quello atletico di Olivier, la sua andatura dinoccolata, le sue leve lunghe non lasciavano presagire eguale eleganza nei movimenti. Ma nonostante accennasse semplicemente i movimenti, senza porvi eccessiva enfasi, si muoveva con altrettanta perizia.

Avremmo visto i primi ‘Jurus’.

Nelle arti marziali tradizionali vengono generalmente codificate tecniche all’interno di una sequenza memorizzata allo scopo di poter allenare, se da soli, i colpi, gli spostamenti e le posizioni.

Molte arti marziali hanno questo tipo di combattimento immaginario codificato che in italiano prende il nome di “forma”. Il corrispettivo di ciò che nel più famoso Karate in giapponese viene chiamato ‘Kata’, nelle arti marziali indonesiane prende il nome di ‘Jurus’. La versione indonesiana di queste forme, almeno nel Pukulan, è molto più breve di quelle della loro controparte cinese o giapponese. Per memorizzarle sono necessari pochi minuti. Per padroneggiarle sono necessari anni. Per comprenderle a fondo è necessaria una vita. Un breve Jurus contiene al suo interno centinaia di applicazioni e movimenti nascosti. Alcuni vengono spiegati, altri vanno cercati, altri interpretati e altrettanti intuiti. Il corpo apprende, il corpo insegna. Il cervello e i muscoli si mandano reciproci impulsi e comandi. Un continuo incessante scambio di informazioni e un esercizio psicomotorio, la ricerca del proprio centro, il proprio equilibrio. Eseguire un Jurus, anche lo stesso centinaia di volte, è illuminante in termini tecnici. L’intero corpo respira nei suoi movimenti codificati e ogni esecuzione è la scoperta di nuovi dettagli. La respirazione, lo sguardo, il ‘timing’ giusto, la possibilità di darvi ritmi diversi in base alla propria capacità di interpretazione e fantasia o in base al proprio stato d’animo attuale. Tutto ciò trasforma qualcosa di apparentemente automatico in qualcosa di vivo e pulsante. Uguale ma diverso.

Nelle arti marziali tradizionali, le ‘forme’ sono il cuore del sistema. Io provenivo da arti marziali e sport da combattimento che non annoveravano ‘forme’ nel loro programma. Non v’erano ‘forme’ nella Kick Boxing, non ve n’erano nel Ju Jitsu Metodo Bianchi che praticai per qualche mese, non ve n’erano in quel po’ di Capoeira, fu una tortura memorizzarne una di Taekwondo, non ve n’erano nel Jeet Kune Do. Bruce Lee non ne aveva gran considerazione. Non ve n’erano nel Kali-Escrima. Alcuni stili le hanno inglobate nel loro programma. Ma si tratta di una giapponesizzazione. E’ un espediente didattico. Le uniche forme che avessi mai appreso erano quelle del Taiji Quan studiato con la moglie del mio lettore di cinese sui tetti del loro palazzo nei vicoli di Napoli, e, per comprendere meglio il Jeet Kune Do seguii delle lezioni private di Kung Fu stile Wing Chun, imparando la prima delle tre forme a mani nude dello stile: la ‘Siu Nim Tao’ o ‘Piccola Idea’, al fine di assimilare il concetto di linea centrale e eseguire meglio e secondo le giuste linee quei concetti attorno ai quali Bruce Lee aveva cucito sulla propria pelle il proprio Jeet Kune Do, partendo da principi di Wing Chun, Scherma e Boxe occidentale. Non molto tempo dopo averle apprese, non fui mai molto tentato di ripeterle, dimenticandone i dettagli negli anni. Non ero certo un fan sfegatato delle forme. Di qualunque arte marziale esse fossero. Non feci salti mortali per la gioia quel giorno all’idea di vederne alcune del Pukulan e contavo i secondi per smettere di ripetere quei pochi movimenti e iniziare a vedere le applicazioni. Fino a quel momento avevo visto sicuramente grazia ed eleganza, precisione, tecnica, simpatia degli ospiti ma nulla per cui fossi lì. Erano già passate circa due ore di allenamento.

Smettemmo con gli esercizi a vuoto, sicuramente interessanti, esemplificativi dell’arte, ma ero proiettato da mesi verso quell’immagine descrittami d Alberto e volevo scoprire quanto aderisse alla realtà o quanto era stata gonfiata allo scopo di attirarci lì.

Qualche altra spiegazione da parte di Walter. Il suo tono di voce era diverso. Un oratore meno navigato di Olivier. Chiamò Anand per assisterlo e si accinse a mostrarci alcune possibili applicazioni dei brevi tre Jurus che avevamo eseguito. Finalmente potevo vederlo in azione.

Il comune denominatore di quelle poche applicazioni che introdusse per scaldare i motori fu un’aggressività al di là dei canoni comuni di qualunque seminario cui avessi partecipato. Ai minimi accenni di movimenti di Anand, Walter si spostava colpendo ripetutamente e camminando verso di lui a zigzag. O meglio … camminando ‘dentro’ di lui a zigzag. I colpi di Walter venivano accompagnati da esclamazioni di dolore dei partecipanti, indotte dagli impatti che Anand assorbiva digrignando i denti e assumendo con il viso un’espressione aggressiva e di pronta reazione. Subito dopo, un accenno di sorriso. Walter non caricava le tecniche, lasciandole partire da dove braccia o gambe si trovassero. La fine di una tecnica era l’inizio di un’altra, ogni movimento non veniva sprecato. Un caricamento era anticipato o seguito da un’altra tecnica. Spesso alcuni colpi proseguivano dopo aver colpito la loro corsa in un’altra parte del corpo dell’aggressore. Le gambe di Walter impattavano automaticamente le caviglie, le ginocchia o le tibie di Anand rubandogli la posizione, spostandolo quel tanto che bastasse per non dargli la possibilità di reagire. Come un animale che esce da un fiume scrollandosi di dosso l’acqua, Walter scuoteva le spalle e le braccia mulinavano su Anand preparando e progettando il colpo successivo. Era lui a decidere dove Anand dovesse spostarsi, quale la direzione della testa, quale gamba regalare e sacrificare alle tibie di Walter. Non era Walter a cercare i bersagli, ma gli stessi bersagli andavano verso gli spigoli di Walter. Gomiti, avambracci, nocche, polsi, tibie, ginocchia, tutte le sue ossa erano pronte ad attendere l’arrivo di qualche parte del corpo di Anand come se inconsciamente sapessero già i loro punti di arrivo. Lavorava sulla meccanica del corpo umano in modo fluido ma potente.

Notai come fosse necessario colpirsi. Se quei colpi non fossero arrivati con la giusta potenza, pur sempre controllata, dopotutto Anand non riportò alcun problema fisico e finiva di subire sorridendo, Walter non avrebbe avuto da parte del suo assistente la giusta reazione. Se camminando nella sua gamba, ad esempio, il passo non avesse impattato prima di poggiare a terra, nella caviglia di Anand con la giusta potenza, questi non avrebbe reagito spostando quella gamba per l’impatto, sbilanciandosi in avanti, cadendo con la faccia sul gomito di Walter e lasciando la gamba rimasta a fare da supporto lì per il colpo di grazia dell’altro passo-colpo di Walter di tibia o di ginocchio.

C’era una parola per tutto quello: consequenzialità.

Quante arti marziali avevo visto. Tutte avevano i loro pugni diretti, le gomitate e calci frontali, laterali o circolari. Le meccaniche erano quelle. Variavano dettagli, particolari o punti di impatto. Ma i concetti di base si somigliavano. Questo era diverso. Trovavo tutto così logico. Non c’era bisogno di alzare una gamba e colpire in viso o all’addome l’avversario. Si andava a far scontrare la cosa che più al mondo siamo abituati a fare, il semplice camminare, usando i passi come colpi, cercando le gambe dell’avversario per poggiare i propri piedi, intersecando le linee, utilizzando le ginocchia come spigoli nelle ginocchia, le tibie nelle tibie. Non si assumeva alcuna guardia, le braccia che si sarebbero utilizzate per camminare, ciondolando avanti e indietro e controbilanciando gli spostamenti delle gambe di una qualunque passeggiata divenivano movimenti per colpire. Lo trovavo geniale, originale e il modo di applicarlo, quell’aggressività, quella determinazione che si leggeva sul volto di Walter accompagnava nel giusto modo la sensazione di incisività di ogni singolo colpo. Stavamo osservando alcune applicazioni dalla posizione-spostamento “Tre”. Avevo finalmente visto il motivo di quella strana posa della foto di Walter. Ma cosa dico. Non era una posa. Non vi sono posizioni nel Pukulan. Era un attacco. Una gamba avanti, in una probabile foto di Pukulan è già un colpo, un gomito posizionato verso il basso è già un cercare qualcosa da colpire e il guardare l’obiettivo è già una promessa di dolore.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on May 09, 2011, 11:51:26 am
sono davvero dei bei diarii, ed alimentano tremendamente la mia curiosità! non vedo l'ora di conoscerti!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on May 09, 2011, 12:43:06 pm
è davvero un piacere leggerti,sembra  di essere lì  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on May 09, 2011, 14:26:58 pm
sono perfettamente d'accordo con il signore col nick arabo! l'unico effetto collaterale è che viene una voglia terribile di vedere come vi muovete! anche perché io non so nulla del Pukulan...

comunque secondo me Claudio e Joseph sono due cronisti di grande talento, hanno doti narrative fuori dal comune. thread come questo, o come Maroc Judo, potrebbero tenermi incollato al monitor per giornate intere.

adoro questo forum, soprattutto quando vengo in contatto con utenti come voi
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Muay Jack on May 09, 2011, 16:10:55 pm
Grazie Claudio, è sempre un piacere leggerti!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 09, 2011, 16:14:18 pm
ma scherzi?!?
grazie a voi per l'interesse   ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: marco on May 09, 2011, 16:53:43 pm
Grazie Claudio, è sempre un piacere leggerti!
mi associo (a parte quando disserti de filosofia :gh:)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ale_ale on May 09, 2011, 17:02:19 pm
Grazie Claudio, è sempre un piacere leggerti!
mi associo (a parte quando disserti de filosofia :gh:)

Mi associo anche io... anche se in ufficio il mio capo ne sarà un pò meno contento  :gh:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 09, 2011, 18:39:25 pm
il mio capo ne sarà un pò meno contento  :gh:
tibialo da 'tre' :-)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 10, 2011, 09:25:41 am
APPENDICE A - Resoconto di un prigioniero…

Crocifissione.
Tale è il verdetto.
Il prezzo degli errori in questo tempo.
Il prezzo delle scelte che ho ormai fatto e che più non lascian scampo.
Mi imbarcai per l’oriente ai tempi di Filippo II. In cerca di ventura ed avventura.
Ivi sognai in quelle terre il mio Eldorado.
Così fu. A cavallo dei due secoli e il fato fu a disarcionarmi ingrato.
Sfuggii alla fame e alla peste andando verso un altro destino contorto.
Ma non v’è pentimento ne sconforto.
Servimmo la corte portoghese
con chi tra noi mai più rivide moglie, figli e case.
Insidiosi mari, lo erano per flutti, pirati e corsari,
talvolta stranieri e ignoti e ancor più spesso miei compatrioti.
Soldati, mercenari su un vascello,
il sangue nostro diede a quelle mappe i colori del nostro vessillo.
Mi incoronai re di Syriam.
Io, lusitano, vi regnai per un tempo di tre lustri.
Assediati fummo dal Nord e dal malvolere di quegli astri.
Mentre scrivo preti e missionari sono in fuga e in cerca di rifugio.
Il Siam la sperata meta e quella terra dia a quei santi i meritati agi.
Che Dio li protegga e perdoni me. Ne accetti il pentimento.
Perdoni tutti noi, per razzie, pirateria, traffico di schiavi e sfruttamento.
Ma non è per cantar la mia disgrazia che ora scrivo, quanto per descriver nascita, vita e morte dell’espansione lusitana e la sua sorte.
Annoto il resoconto prima dell’ultima mia cena, accettando il mio destino legato a quella sacra icona.
Un onore al quale farei a meno volentieri.
Lascio il resoconto a topi e prigionieri.
Non mi importa se stomaco o memoria.
Per conquistar vestigia di una tal misera gloria, darò il mio contributo a questa storia.


L’espansione europea in estremo oriente iniziò con noi portoghesi.
Ma come una zanzara che si avventa su un branco di Karbau (bufalo d’acqua), ci avventammo su Giappone, Cina, giungendo a controllare l’intero commercio delle Indie.
Fortunati per la nostra posizione geografica, marinai abituati al mare aperto, costruimmo le prime robuste caracche a poppa alta, stimolati dalle guerre contro i mori e dalla rivalità con la sorella Spagna.
Il principe Enrico il Navigatore, spinto da zelo religioso, da interessi commerciali e scientifici, a metà del XV secolo diede il via alle spedizioni. Capacità nautiche, cartografia, commercio di schiavi e oro erano ormai ampiamente sviluppati due generazioni dopo al tempo di Bartolomeo Dias.
Il nostro interesse era costruire basi per condurre la guerra contro i musulmani e il controllo del traffico delle spezie.
Capo di Buona Speranza, Golfo Persico, Mar Rosso, giungemmo fino a Goa nel 1510, lungo la costa occidentale dell’India e poi Malacca, sull’omonima penisola.
Da lì alle Molucche, le ‘isole delle Spezie’.
Era di primaria importanza per noi riuscire a controllare due bracci di mare: lo stretto di Malacca, tra Malesia e Sumatra; e lo stretto di Sunda, tra Sumatra e Java Occidentale.
Da lì sarebbe stato possibile controllare le rotte commerciali, e il commercio delle spezie: pepe, chiodi di garofano, noce moscata.
Un controllo che non fu mai assoluto.
Tentammo il dominio della via delle spezie ma alcuni stati di Java che avevano adottato l’islamismo, ci impedì di arrivare al monopolio.
Partendo da Malacca, centro commerciale, marittimo e di pirateria, la religione islamica s’era ben presto diffusa in Malesia, Sumatra e lungo le coste orientali e centrali di Java, fino alle Molucche.
I nostri storici nemici erano ancora lì, volti diversi, terre diverse, ma loro, l’Islam non ci dava tregua come noi non la davamo a loro.
La crociata nel Sud-Est Asiatico non fu meno cruenta e violenta di quella in Occidente e Medio oriente.
Non era più lo stretto di Gibilterra il teatro della guerra, bensì quelli di Sunda e di Malacca.
Ma peccammo di superbia.
Fummo logorati da quei luoghi. Fame di ricchezze, matrimoni misti, lusso e agiatezza ci fiaccarono nello spirito e nel fisico.
Disorganizzati e scarsi di numero per territori così vasti, i nostri capi non erano grandi condottieri e capitani. Bensì avventurieri in cerca di fortuna.
Fummo costretti ad allearci con potentati e fazioni locali.
Intervenimmo ovunque, Birmania, Siam, in qualità di mercenari o pirati indipendenti.
Io fui tra quelli.
Mi incoronai re di Syriam, e regnai in Birmania meridionale per quattordici anni, dal 1599 a oggi, data in cui scrivo, Settembre 1613.
Siamo stati assediati dall’esercito del Nord. Catturato e imprigionato, sono ora in attesa della mia esecuzione, che avverrà l’indomani per crocifissione.
Dovrei esserne onorato come Cristiano.

Felipe de Brito
Settembre 1613


L’espansione portoghese si concluse quando il Portogallo si piegò al dominio della corona spagnola.
Quando riconquistò l’indipendenza nel 1640, la sua potenza era stata superata da quelle inglesi e olandesi, assai meglio organizzate.
Stava per iniziare il dominio olandese nell’arcipelago malese.
Con tutto ciò che comporta ai fini della nostra ricerca.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on May 10, 2011, 09:34:01 am
Claudio te lo ripeto : sei un eccellente narratore !!!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 10, 2011, 10:49:37 am
PARTE VII - L’Arte di lucidare il diamante

Prima di passare alle applicazioni a coppie Walter ci guardò e ci chiese se avessimo domande da porgli. I soliti sguardi interlocutori, ognuno di noi guardò a destra e sinistra come se tutti stessimo per attraversare una strada trafficata. Le domande c’erano, ma nessuno era intenzionato a rompere il ghiaccio e fare la parte del rompiballe. Sorridendo disse: “forza ragazzi, se non fate domande vuol dire che tutti avete capito tutto o che la cosa non vi interessa”.
Un temerario alzò la mano.
“E se l’avversario attacca con l’altro braccio? Se invece di darmi un destro mi da un sinistro?”. Walter scrollò le spalle con indifferenza e soddisfatto per la domanda rispose: “A me non importa cosa faccia lui.” Perplessità! “Che vuol dire?”. Walter spiegò: “Io non posso prevedere come attaccherà lui. Non ho il tempo di vedere che braccio mi sta arrivando in faccia e valutare se andare a destra o a sinistra, se applicare una combinazione dalla parte destra o dalla parte sinistra. Se voglio però applicare quella combinazione, lo farò a prescindere dal braccio che mi sta attaccando. Trasferisco i principi dall’esterno all’interno o viceversa. Se ho deciso di andare a sinistra, perché magari lui mi attacca con il destro, e quindi gli vado sull’esterno, farò lo stesso se mi attacca con il sinistro. Solo che mi troverò al suo interno. Io devo basarmi su quello che io voglio fare, non ho il tempo per accorgermi, riflettere e decidere di muovermi da una parte o l’altra in base al suo attacco. Ho deciso di andare a sinistra? Perfetto. Sono bravo a muovermi da quella parte lì? Ok. Andrò comunque lì. Cambierà solo il trovarmi sul suo esterno o sul suo interno. A me non importa. Io uso le mie linee. Ho i miei angoli. Decido io, non lui! Il Pukulan è la via più breve. Farà la cosa più semplice e diretta, ossia, andare dove avevo deciso di andare. Noi ci alleniamo sulla reazione. Ma calcolate che nel Pukulan non esiste una reazione. Noi non reagiamo. Agiamo e basta. Se lui vuole spaccarmi la faccia lo vedo, non viene con dei fiori, non lo lascio avvicinare. Me ne accorgo dall’atteggiamento, dallo sguardo, da come respira, dai muscoli della faccia. Io guardo le persone. Le osservo. Le studio”. Improvvisamente mi tornò in mente come osservasse i partecipanti che arrivavano al palazzetto. “Guardo come si muovono e molto probabilmente so già anche dalla corporatura o da come cammina o da come si muove se è un combattente oppure no … e magari se è mancino oppure no. Nel Pukulan anticipiamo. Sempre! Chiamiamo questo modo di fare 'colpire al batter di ciglia'. C'è sempre un segno rivelatore che ci indica che l'aggressore sta per agire. Un guizzo dello sguardo, un piccolo movimento delle palpebre. Sfruttiamo quello. Tutto può funzionare, in qualunque arte marziale, ma solo se non lascio fare all’avversario quello che vuole. Altrimenti non funziona nulla. Qualunque tecnica o combinazione, o agisco io per primo, quando vedo il pericolo, o rischio di soccombere”.
Un altro partecipante chiese: “quindi ci si allena su attacco del compagno solo come allenamento?”. Walter: “Esatto! E’ più semplice e serve per sviluppare ‘timing’, la scelta di tempo e i riflessi. Ma nella realtà agisco per primo, non lascio fare. Parto sempre dal presupposto che chi mi è di fronte sia più forte di me. Quello che devo fare è non lasciarglielo dimostrare”.
Domanda di rito: “in questo modo non si va incontro a problemi legali?”.
La sua risposta fu: “Certamente! Ma il mio principale obiettivo è salvarmi la vita o l’incolumità mia e di chi sta con me. Il resto è secondario. Agisco in base al momento e il momento mi da un segnale di pericolo imminente. Agisco su quello. Il resto è un pericolo secondario. Sicuramente tutti conoscete il detto ‘meglio un brutto processo che un bel funerale’… ecco, noi la vediamo così!”.
Ormai il ghiaccio era stato rotto e le domande arrivavano una dietro l’altra.
“Quando vi allenate vi colpite sempre così forte?”.
La risposta darebbe luogo a interi capitoli e pagine sul Pukulan, ma in questa sede sarò breve, non anticipando cose che scriverò in seguito:
“Si”. Rispose. “Se sono abituato al dolore non ne resterò scioccato. Vi sarò abituato. Il dolore ti cambia. Il Pukulan ti cambia. Il nostro modo di allenarci cambia chi lo pratica. Il dolore è necessario per capire. ‘Sentire’ è necessario per capire. Se sono abituato e per anni mi alleno in questo modo, al momento di uno scontro potrò pensare …. cosa potrà mai farmi costui a mani nude a cui non sia già da anni abituato? Se so già accettare il dolore di persone allenate e con arti condizionati in anni di duro allenamento, come posso preoccuparmi del dolore che può darmi uno qualunque”?
Notando le nostre facce, sorrise e aggiunse: “Il Pukulan non è per tutti. Siamo pochi e non ci interessano i grandi gruppi. In questo modo ci assicuriamo alti standard, il livello dei praticanti resta alto, non ci interessa commercializzare l’Arte. I perditempo e chi non è in grado di sopportare certi allenamenti resta lontano. Noi usiamo dire ‘non sei tu a scegliere il Pukulan, ma il Pukulan a scegliere te ’ ”.
Il messaggio era chiaro.
Proseguì: “Non c’è altro modo di allenare quest’Arte. L’unico modo di allenarsi è questo. Se non lo accetti sei fuori. Se non lo sopporti sei fuori. Se non lo condividi restane lontano. Non cerchiamo l’approvazione di nessuno. Non cerchiamo sostegno o assensi. Dentro o fuori. O ti alleni con impegno, costanza, dedizione e sacrificio o fai altro. Senza offesa. Amici come prima. Ci sono tante belle arti marziali. Fai altro. Ma non far perdere tempo a noi. Il tempo è prezioso e il tempo del nostro allenamento lo è di più. Io sacrifico il divertimento e tanto altro per il Pukulan. Per noi prima viene il Pukulan, poi viene il Pukulan, poi viene tutto il resto. Questa è la mia vita. Usiamo dire ‘lucidare il diamante’. L’allenamento è ‘lucidare il diamante’ e lo facciamo ogni giorno. E ciò che più conta, c’è solo un modo per farlo. Questo è il Pukulan”.
Ci guardammo perplessi. Con quella stessa perplessità ci accingemmo a eseguire le applicazioni a coppie.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Wa No Seishin on May 10, 2011, 13:12:47 pm
“E se l’avversario attacca con l’altro braccio? Se invece di darmi un destro mi da un sinistro?”. Walter scrollò le spalle con indifferenza e soddisfatto per la domanda rispose: “A me non importa cosa faccia lui.” Perplessità! “Che vuol dire?”. Walter spiegò: “Io non posso prevedere come attaccherà lui. Non ho il tempo di vedere che braccio mi sta arrivando in faccia e valutare se andare a destra o a sinistra, se applicare una combinazione dalla parte destra o dalla parte sinistra. Se voglio però applicare quella combinazione, lo farò a prescindere dal braccio che mi sta attaccando. Trasferisco i principi dall’esterno all’interno o viceversa. Se ho deciso di andare a sinistra, perché magari lui mi attacca con il destro, e quindi gli vado sull’esterno, farò lo stesso se mi attacca con il sinistro. Solo che mi troverò al suo interno. Io devo basarmi su quello che io voglio fare, non ho il tempo per accorgermi, riflettere e decidere di muovermi da una parte o l’altra in base al suo attacco. Ho deciso di andare a sinistra? Perfetto. Sono bravo a muovermi da quella parte lì? Ok. Andrò comunque lì. Cambierà solo il trovarmi sul suo esterno o sul suo interno. A me non importa. Io uso le mie linee. Ho i miei angoli. Decido io, non lui! Il Pukulan è la via più breve. Farà la cosa più semplice e diretta, ossia, andare dove avevo deciso di andare.

In linea col dubbio che mi porto sempre dietro (l'ultima volta che ho chiesto 'sta roba, ero al Gathering): se ho difficoltà a veder partire i colpi (dx, sin, gancio, montante, diretto) devo cercare una "costruzione" che vada bene sempre.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ale_ale on May 10, 2011, 13:23:01 pm
“Se sono abituato al dolore non ne resterò scioccato. Vi sarò abituato. Il dolore ti cambia. Il Pukulan ti cambia. Il nostro modo di allenarci cambia chi lo pratica. Il dolore è necessario per capire. ‘Sentire’ è necessario per capire.

il modo in cui in pratica intendete questo è la parte che mi interessa di più, ma attendo di leggere il resto del racconto  :)
da noi si distingue fra il dolore e il far male, far quello che è "allenante" e aiuta il compagno a rinforzarsi e quello che crea semplicemente un danno fine a se stesso...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Dottor Wolvie Killmister on May 10, 2011, 13:23:14 pm

Vero.
Dedicato a tutti quelli che credono che si possa reagire un pugno già partito.
Cioè... certo che puoi pararlo, schivarlo, bloccarlo, defletterlo, acciuffarlo, ma allora non si trattava di un pugno, ma solo di uno smanacciamento a mano chiusa.
I pugni veri fanno male.

Il dolore è necessario per capire. ‘Sentire’ è necessario per capire. Se sono abituato e per anni mi alleno in questo modo, al momento di uno scontro potrò pensare …. cosa potrà mai farmi costui a mani nude a cui non sia già da anni abituato? Se so già accettare il dolore di persone allenate e con arti condizionati in anni di duro allenamento, come posso preoccuparmi del dolore che può darmi uno qualunque”?

 :thsit:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 10, 2011, 14:16:53 pm
O un pugno tirato male...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 10, 2011, 19:28:18 pm
PARTE VIII - La mattanza

 

Le applicazioni erano quelle mostrate da Walter su Anand. Quelle estrapolate dal primo Jurus. Su attacco di diretto destro dovevamo uscire verso sinistra controllando il colpo in arrivo e percuotendo allo stesso tempo il viso e rientrando con altre percussioni. Tutto, logicamente, avanzando e colpendo avanzando. Non facile direzionare le gambe in un certo modo e usare le braccia contemporaneamente.

Come compagno di allenamento mi capitò Simone. Una fortuna. Un ragazzo disponibile e simpatico, umile ma dannatamente tosto come combattente. Un tipo molto alla mano e cordiale, ma che una volta indossati i guantoni per fare sparring non aveva mezze misure. Menava come se fosse sul ring in una finale per il titolo. Istruttore di Yosekan Budo e poi mio collega di corso istruttori di Kali e Jeet Kune Do. Aveva partecipato a molte competizioni a contatto pieno di svariate arti marziali. Il termine contatto leggero gli era totalmente alieno. Potente, sciolto di gambe, bravo anche nelle proiezioni, ottima tecnica pugilistica e abile nell’uso delle armi tradizionali giapponesi come tutti i praticanti esperti di Yosekan Budo. Un ragazzo tranquillo fuori dal quadrato, un avversario da non sottovalutare al suo interno. Fui contento di essere capitato con lui. Andavamo molto d’accordo. Spalle larghe, ben oltre il metro e ottanta di altezza, capelli castani ricci e tutte le ossa del viso abbastanza pronunciate.

I tre olandesi iniziarono a girare tra i partecipanti per controllare la corretta esecuzione delle tecniche. Alberto e Emilio giravano anch’essi. Uno di loro munito di telecamera. L’altro osservava incuriosito e divertito le “correzioni” degli esperti.

Fu una mattanza.

Io e Simone iniziammo ad attaccarci in modo alternato. Quattro o cinque attacchi consecutivi ciascuno, poi ci davamo il cambio. Tutti gli altri, a coppie, fecero altrettanto.

Vidi Walter avvicinarsi a una coppia. Spiegò loro come eseguire correttamente l’entrata. Mostrò come chi svolgeva il ruolo di aggressore dovesse essere più incisivo e realistico nell’attacco e come chi subiva l’attacco dovesse acuire i riflessi di conseguenza e reagire più prontamente, anticipando l’uscita e il rientro e facendo “sentire” la tecnica. Spiegò come.

Mi dilungo solo un po’ su questo argomento. Ci sarà tempo per spiegare, poi, i come e i perché. ‘Sentire’. Un termine che si usa spesso nel Pukulan. ‘Sentire’, ‘to feel’ è fondamentale. Domande come “do you want to feel?” (vuoi sentire?) o “do you feel it?” (la senti?), nel Pukulan sono molto frequenti. Spesso è il viso del compagno di allenamento a rispondere. Non c’è bisogno di dirlo. La contrazione muscolare del viso è esplicativa più di mille parole. L’espressione di dolore ci rivela se il colpo era buono. Altre volte ci si ‘racconta’ la sensazione. Tra praticanti si parla di ‘carne da allenamento’. Ci si considera tutti con questo appellativo. Potrebbe sembrare un termine dispregiativo, ma non lo è. Essere l’uno per l’altro ‘carne da allenamento’, sia quando si danno i colpi, sia quando li si riceve, è un reciproco regalo, uno scambievole carnale presente. Si prestano le proprie ossa e la propria ‘carne’ per permettere ad altri di allenarsi e si riceve altrettanto. E se la sensazione non soddisfa, se il ‘timing’ non è giusto, il punto di impatto non preciso, se non si riesce a far ‘sentire’ il proprio osso al compagno di allenamento, allora ce lo si dice e si riprova e si riprova ancora. Ci si assicura che la tecnica sia corretta. Non esteticamente e non solo meccanicamente. Chi dà.. deve ‘sentire’. Chi riceve deve ‘sentire’. Solo in questo modo si è sicuri che chi sta colpendo sta eseguendo qualcosa di valido e chi riceve sta imparando a ricevere con la giusta prontezza d’animo. Altruismo. Non saprei chiamarlo in nessun altro modo. Ma ancora più importante: se la tecnica non viene portata con la giusta dose di potenza, non si riesce ad ottenere una reazione adeguata da parte dell’avversario/compagno. Non si riesce a guidare l’avversario dove si vuole per potere continuare gli attacchi, e il concetto di consequenzialità va a farsi benedire.

Ecco perché Walter menava per spiegare. Non v’era cattiveria. Lui voleva che capissimo.

Non ho mai condotto allenamenti leggeri. Ho sempre creduto nella necessità di doversi allenare con un certo realismo, ma il loro modo di allenarsi era esattamente come Roberto mi aveva accennato quella sera a cena: fuori dai normali canoni, non commerciale, improponibile per grandi gruppi, corsi o seminari come normalmente li si intende.

La grande sala del palazzetto riecheggiava dei lamenti e degli impatti. Ricordo che riuscii ad allenarmi ben poco se non quando uno degli olandesi era da noi a spiegarci le tecniche. Si era tutti talmente presi da ciò che correggevano e mostravano alla coppia di turno, che ci si fermava lì a guardare cosa accadesse, sadicamente ridacchiando e divertendosi a osservare le facce sofferenti, più o meno stoiche, delle vittime di turno. Come pupazzi si veniva sballottati dagli impatti che arrivavano da più direzioni e non si faceva a tempo a riprendersi dal dolore o prendere coscienza dell’impatto precedente, che arrivava, incalzante, il seguente. Che fosse Walter, decisamente il più deciso – mi si passi il gioco di parole – Anand, che neanche ci scherzava, e il più ‘stiloso’ e tranquillo Olivier, tutti loro non risparmiavano particolari, rispondevano entusiasti più di noi alle nostre domande e curiosità. Una disponibilità mai vista in alcun seminario, dove, in genere l’esperto centellina informazioni e dettagli e il seminario non diventa altro che un grande spot pubblicitario pagato dai partecipanti.

L’aspetto più divertente era il terrore che si diffuse in sala quando ci si accorgeva, mentre si era intenti a eseguire le tecniche con il proprio compagno, che si era osservati da uno di loro. Ci si accorgeva con apprensione che si era puntati, controllati, e dal momento in cui la tecnica era certamente non idonea, si stava per essere corretti. Ciò significava dover ‘sentire’ le tecniche come dovevano venire eseguite direttamente da loro. Ma, il problema era un altro. Se ad esempio ero io a sbagliare l’esecuzione della tecnica su Simone e uno di loro veniva a correggermi, allora mi avrebbe fermato e gentilmente mostrato con cura la corretta esecuzione, dilungandosi in numerosi esempi sul malcapitato innocente mio compagno di allenamento; il quale, non solo era così gentile da prestare il proprio corpo a me per allenarmi, ma doveva prestarlo anche a loro per permettergli di spiegare dove sbagliassi. Dolore. E chi veniva corretto sorrideva diabolicamente guardando come il suo compagno venisse usato come sacco.

Con il passare delle ore si creò un perverso gioco di vendette. “Stronzo, falla bene stavolta, ti sta guardando. Eccolo lo sapevo, sta arrivando”, “quale dei tre?”, “il più cattivo!”. Risata sommessa. “Questa me la paghi, bastardo!”. Si giunse alle ritorsioni. Ci fu qualche ‘infamone’ che fingendo di non capire, chiedeva di rivedere l’applicazione o incalzava con altre domande per vendicarsi delle botte subite in precedenza.

Scherzavamo, ma fu davvero interessante vedere decine e decine di applicazioni e seppure doloroso, fu un gran giorno.

Attorno alla coppia che riceveva le spiegazioni e le correzioni si formavano cerchi di persone che osservavano le diverse applicazioni mostrate da Walter, Anand o Olivier. Avevano approcci diversi sia nell’agire sia nello spiegare. Walter diretto e duro. Anand una versione meno cattiva di Walter e Olivier un’enciclopedia. Restava lì per minuti e minuti. Mostrava alternative, variazioni, esercizi per apprendere quel movimento. Le applicazioni a coppie venivano interrotte da altre combinazioni introdotte da Walter su Anand. Sempre stessi risultati: impatti impressionanti. Ossa contro ossa. Tibia contro tibia con Anand che era letteralmente alzato da terra per la potenza dell’impatto. Se ne sentivano i rumori, coperti solo dalle esclamazioni di dolore indiretto dei partecipanti. Poi, di nuovo a coppie a provare quanto visto.

Incrociai un paio di volte Emilio, il quale sorpreso dalle abilità degli olandesi, commentava: “E’ incredibile come da una distanza così breve possa riuscire a sviluppare un impatto così potente!”.

Ricordo in particolare le volte in cui toccò a me ricevere le loro tecniche. Tra loro colpivano con ben altra intensità. Con noi andavano più tranquilli, ma si facevano dannatamente ‘sentire’.

La prima volta che Walter venne da me ebbi la possibilità di sperimentare in modo diretto le pesantezza dei suoi colpi. Lo attaccai con un diretto destro, spostandomi in avanti con la gamba destra. Intercettò e tagliò la mia linea di attacco, deviando e deflettendo il mio colpo e facendomi osservare le sue nocche da pochi millimetri. Venni sbilanciato, il suo braccio era pesante. Allo stesso tempo la sua gamba era nella mia, la sua rotula puntava nel mio menisco. Il mio busto sbilanciato in avanti. Aprì la sua mano allungando le dita e colpendomi il lato del naso e appoggiandomi le nocche delle dita sull’occhio destro. Colonia e tabacco. Questa manovra mi girò “gentilmente” il viso altrove. Si fermò un attimo, si girò verso Simone dicendogli: “E’ importante che lui non guardi cosa gli stia accadendo. Se non lo sa tutto fa più male e non sa da cosa deve difendersi”. Non sapere cosa mi sarebbe arrivato triplicò la preoccupazione degli impatti. Almeno sapendo dove potevo assecondare. Mi giunse una combinazione di qualcosa che non riuscii a vedere. Mi colpì controllando ripetutamente alle costole, ne contai almeno tre, ma furono così rapidi che ne sembrò uno con vibrazione. Le mura del palazzetto mi sembrarono di gelatina mentre l’impatto mi scuoteva in diverse direzioni. Il peso del mio corpo era prima avanti, poi spostato su un lato, poi dietro. Fu Simone ad aggiornarmi della situazione, dicendomi che aveva portato due colpi di nocche alle mie costole e un ultimo di gomito verso la mia testa. Di questo riuscii ad ascoltare il suono. Un forte scoppio il cui eco rimbalzò sotto al soffitto arcuato della sala. Aveva stoppato l’osso del suo gomito a un centimetro dal mio cranio, lasciandolo impattare sulla sua mano. Lo scoppio fu causato da questo. Il tempo di fissare un attimo l’immagine del suo omero sulla mia retina e sentire l’odore di candeggina della sua divisa e poi una acuta sensazione di dolore direttamente nel femore della mia gamba destra. Fui schiacciato verso il basso. Lui non mi aveva spinto via, mi aveva incollato al suolo. Il dolore era stato provocato da uno strettissimo movimento frustato della sua tibia sinistra nella mia coscia destra. Per alcuni secondi la mia gamba non rispose ai miei comandi. Tutta la mia concentrazione era presa dal dolore causato da quella frustata. Esisteva solo quello. Era partito da una distanza minima, senza caricamento, un movimento che apparentemente non doveva avergli chiesto ne sforzo ne preavvisi. Mi sorrise e ci spiegò: “A me non interessa spostare via o spingere il mio avversario. Altrimenti non posso colpirlo. Io voglio stargli a stretta distanza. Quella è la nostra specialità. La stretta distanza. Dove i colpi arrivano rapidi e molti sono impreparati a reagire. A me interessa spostarlo quel tanto che basta per sbilanciarlo se vuole colpirmi, levare peso alle sue possibili reazioni, per poi incollarlo giù, dove dico io. Poi, colpirlo e colpire ancora. Non importa cosa voglia farvi un aggressore. Voi colpite. Colpite sempre!”. “Pukul!”. Alzò le sopracciglia. “Always Pukul!”
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 11, 2011, 16:56:09 pm
PARTE IX - Dettagli e 'proprietà transitiva del dolore'......

“Il problema è riuscire a farlo coordinando in questo modo gambe e braccia”, gli dissi. Mi sorrise: “Lo so! Non è facile. Ma lo può diventare allenandosi. Il segreto è sol
o lì: l’allenamento. E’ così che le tecniche diventano fluide e braccia e gambe si coordinano da sole e il corpo agisce da sé”. Aggiunse un’altra di quelle massime a effetto tipiche del Pukulan, con aria soddisfatta e di chi ricorda la prima volta che egli stesso ebbe modo di sentire quell’espressione: “le braccia non vanno mai in guerra senza gambe. Le gambe non vanno mai in guerra senza braccia. E un braccio non va mai in guerra senza l’altro”.

Il mio sguardo cadde sullo stemma cucito sul petto sinistro della giacca. Un logo a sfondo bianco bordato rosso. Una scritta ad arco in alto: ‘Pencak Silat’. Un’altra a conca che accompagnava l’estremità in basso: ‘Pukulan Pecutan’. Ricordavo che il nome fosse Pukulan Madura. Tra le due scritte in basso, ad accompagnare i lati, v’erano degli steli di riso. Poi, al centro, una rossa testa di bufalo avvolta da una lunga frusta e ai suoi lati due armi tipiche del sud-est asiatico: un kris, il coltello dalla lama serpentina, e un ‘cabang’, una sorta di coltello a tridente. Mi chiesi incuriosito cosa volessero significare tutti quei simboli raccolti in un unico logo e mi parvero un po’ eccessivi.

Mi colpì anche che la testa del bufalo fosse obliqua, chiedendomi se fosse un errore di chi avesse stampato quel logo o una scelta voluta.

Le volte in cui capitarono Anand e poi Olivier a correggere i nostri errori furono numerose.

Al di là dell’interesse tecnico, rammento come Anand richiese una maggiore determinazione da parte mia. Per lui non entravo su Simone in modo sufficientemente deciso. Mi fece ripetere lo spostamento e il contrattacco molte volte. Ad un certo punto mi fermò, mi si pose d’avanti e avvicinandosi più del necessario mi fissò negli occhi e chiese: “sei un istruttore?”. “Si”, risposi. “E allora dimostralo”. Dicendomelo spalancò gli occhi, digrignò i denti e mi colpì con leggeri schiaffetti la guancia sinistra. Mi diede abbastanza fastidio. Tuttavia suscitò in me la reazione giusta. Mi diede estremamente fastidio che mi avesse messo le mani in faccia. Per rispetto non mi sarei sognato di reagire. Capii che ciò che mi chiedeva fosse rabbia. Ed era riuscito ad ottenerla. Quando reagii su Simone fui aggressivo. Volevo dimostrargli che se avessi voluto avrei tirato fuori ciò che servisse per accontentarlo. Sorrise soddisfatto e indicandomi esclamò: “Yes!!!”. “E’ sempre con questa mentalità che ci si deve allenare. Altrimenti è inutile”. Dimostrandoci alcune varianti fu duro nelle entrate. Non ci risparmiò dolore aggiuntivo a quello datoci da Walter. Ma servì. Servì a capire. Servì a comprendere che non era solo una questione di impatto, ma anche di corretta mentalità. Tutte le altre applicazioni furono da noi eseguite con la medesima dose di aggressività. Il nostro cervello aveva eseguito una specie di “switch”, un cambio, una modifica. Un interruttore era stato scoperto e smosso. Lo lasciammo acceso per tutto il tempo dell’allenamento. Seguirono una serie di colpi intensi tra me e Simone. Rabbia controllata e incanalata esclusivamente nell’esecuzione di un gesto tecnico, allo scopo di rendere l’allenamento ‘reale’. Fummo presi dalla foga pur non ferendoci. L’allenamento che ne seguì fu intenso. Solo un’interruzione di diversi minuti avrebbe spezzato quella concentrazione.

Quando fu il turno di Olivier, l’esperienza fu ancora diversa. Deciso nelle entrate, potente anche lui, ma si capiva subito che amava spiegare e far capire i dettagli. Spesso si dice ‘se vuoi aiutare qualcuno non dargli del pesce, regalagli una canna da pesca’. Fu ciò che Olivier fece. Non ci mostrò le esecuzioni corrette. Ossia, non si limitò a quelle. Lui si addentrò nei particolari, mostrando variazioni sul tema e esercizi per sviluppare e allenare quei movimenti. Logicamente non avremmo potuto memorizzarli. Ne mostrò tanti. Ma ciò che conta è che lui ci stesse gratuitamente illustrando ‘come’ loro arrivassero a muoversi in quel modo. Come allenare i Langka sulle figure geometriche. Per farlo utilizzava le linee a terra del campo di basket, proiettandone altre immaginarie. Il busto ruotava in continuazione trascinando con sé le spalle. Queste tiravano dietro le braccia. L’altezza variava continuamente e la respirazione era breve e ritmica. Gli impatti venivano estinti sulle proprie mani causando una serie di forti scoppi continui, la divisa schioccava sulle braccia a causa delle loro violente frustate. L’inerzia la faceva arrancare dietro all’ultimo movimento e l’inizio del successivo le dava il nuovo impulso e un nuovo schiocco e fruscio. Lo si sarebbe potuto ascoltare chiudendo gli occhi e immaginando con la propria fantasia i colpi e gli spostamenti. Non v’era un singolo movimento a vuoto. Non uno che non venisse accompagnato da almeno un colpo. Accelerando e decelerando, spezzando il ritmo. Sembravano assoli di un batterista. Attaccava su più direzioni, come se stesse combattendo contro più avversari. “Il Pukulan non è per le applicazioni sportive”, ci disse. “Nasce per preservare la propria incolumità. Quando ci si allena la mente è settata su più direzioni e su più avversari. Questo è il motivo principale per il quale vi trovate in difficoltà. Voi vi muovete, spostate e colpite con il tallone posteriore sollevato. Ciò a causa delle arti che praticate. Noi invece il tallone lo teniamo incollato a terra. Questo mi permette di avere una maggiore stabilità e di spostarmi rapidamente su più angoli e direzioni di attacco”.

Nelle arti marziali indonesiane è frequente vedere praticanti che fanno impattare i colpi sulle proprie mani. E’ una pratica curiosa. Nell’esecuzione delle ‘forme’ si emettono questi battiti continui, accompagnando i movimenti con una colonna sonora fatta di respirazione, battiti dei colpi e schiocchi della divisa. Quando la divisa schiocca sul proprio corpo vuol dire che i movimenti sono esplosivi e eseguiti con repentini cambi di direzione. Il battito dei colpi sulle mani significa precisione. E’un appuntamento tra il colpo e il bersaglio. Ci si assicura la corretta linea di impatto. Il punto preciso. Il corpo da una leggera accelerazione se sa che sta per impattare su qualcosa, migliorando la scelta di tempo. Farlo a vuoto è diverso, non trasmettendo l’impulso dell’impatto. Inoltre dare un bersaglio, seppure venga rappresentato dalla nostra stessa mano segna il luogo preciso sulla linea e sul vertice delle geometrie, migliorando la forma, la coordinazione e la precisione. Non ultimo, gli impatti sono violenti. Se ripetuti diverse volte, mani colpite e armi utilizzate si auto condizionano automaticamente, aggiungendo quel quid in più ad ogni allenamento. Le mani, alla fine, sono rosse, tutte le superfici cutanee che hanno colpito o hanno subito il colpo sono ustionate e friggono per le decine e decine di impatti ripetuti, i nervi risvegliati e ogni scoppio che arriva più forte è fonte di soddisfazione e da la carica per aumentare ulteriormente al successivo. Variava i passi dal ‘Tre’, passava al ‘Quattro’, tornava in ‘Tre’, poi ‘Cinque’, senza alcuna stasi, fluido e continuo, le braccia mai ferme, lo sguardo variava intensità con i colpi, la testa seguiva le linee, le spalle erano scosse alternandosi come talvolta mi era capitato di vedere in alcuni balli sud americani. La differenza era che in quel caso erano la polvere da sparo delle tecniche di braccia e delle potenti contro rotazioni del busto e delle gambe. Le mani erano chiuse a pugno, d’improvviso si aprivano, a volte mostravano il palmo, altre volte le dita, i polsi giravano come se colpissero, i colpi arrivavano di taglio, poi i pugni si serravano ancora e colpivano diretti o strusciando con frustate di polso. La maggior parte dei pugni veniva portata a palmi in su, come nel pugilato di una volta. Molto singolare. Non vi ero per nulla abituato.

E mentre si era intenti ad assorbire e registrare nella memoria un concetto appena visto, Olivier ne illustrava un altro. Il tono alto, gesticolando e facendoci paragoni con altri stili di Silat, spiegandoci il significato dei più piccoli gesti e di quei movimenti dei polsi, il perché delle mani ora chiuse e ora aperte. Poi... Walter ci chiamò.

Stavamo per vedere gli esercizi di base utili per il condizionamento osseo e come sviluppare una corretta ‘accettazione del dolore’.

Ci disponemmo per osservare.

Walter e Anand si fronteggiarono con gambe leggermente piegate, uno di fronte all’altro a un braccio di distanza. Iniziarono a colpirsi con le ossa dei polsi e degli avambracci. Usarono diverse angolazioni dando una accelerazione finale appena prima dell’impatto. Si sentiva il rumore delle ossa. Non ammortizzavano sui muscoli, erano le ossa a scontrarsi e provocare quei suoni. Alto, basso, interno, esterno, a spingere, a tirare, a tagliare. Avevo visto quelle pratiche in alcuni stili di Karate e KungFu, ma mai dal vivo, mai con quella intensità e il rumore delle ossa che si toccano con violenza si dimentica difficilmente. Poi, finite le angolazioni di braccia, le gambe. Smorfie di dolore dei partecipanti mentre i due praticanti di Pukulan incrociarono le tibie a x e si colpirono senza risparmiarsi cresta tibiale su cresta tibiale. Da un lato e dall’altro, interno, esterno. Il suono si sentì ancora più netto. Il viso di Anand era tra il dolore e il piacere amaro per la botta subita. Quello di Walter tendeva al divertito sadico. Ma era chiaro che i due si stessero divertendo e tacitamente sfidando la loro soglia del dolore. Poi, si allontanarono leggermente e si vennero incontro con un lungo passo in avanti per far scontrate di nuovo le loro tibie. Fu una piccola gara a chi giungesse prima in un punto stabilito. A chi rubava prima il tempo all’altro. Di nuovo un impatto violento. Fummo noi a esclamare dolore per loro, e non tanto per la prima volta che si colpirono, ma quanto per le successive tre, sempre più intense, il suono delle ossa sempre nitido. E ogni volta che smettevano con le braccia e sapevamo che stavano per trasferire quella tortura alle gambe sapevamo che sarebbe stato più forte.

Smisero con Anand che sorridendo a Walter tirò un paio di volte i talloni verso i glutei mostrandogli che aveva ‘sentito’ l’esercizio. Nessuna espressione facciale di dolore. Solo le nostre.

Ecco la parte peggiore. Toccava a noi ripetere l’esercizio. E se avessimo sbagliato? Sarebbero venuti a correggerci di persona mostrando come eseguirlo correttamente? Panico!

Io e Simone eseguimmo l’intera sequenza dapprima lentamente per memorizzarla, poi con un po’ più di veemenza. Tutto fu sopportabile. Intensificammo solo se notavamo che gli olandesi stessero guardando nella nostra direzione, per timore che venissero a correggerci e costringerci ad eseguire l’esercizio con loro. Subire una tibiata simile poteva significare smettere di allenarsi e dedicare il resto dell'allenamento allo strofinarsi la parte dolorante. Temendo inoltre di essere costretto a deambulare a malapena il giorno successivo. Per fortuna ci andò bene. Ad altri meno. Un paio di persone furono costrette a ripetere l’esercizio con loro. Ci andarono piano. Ma il piano per loro non era piano per noi. Questioni di diversa abitudine e condizionamento.

Terminammo la giornata doloranti e leopardati. Chi più chi meno aveva subito la sua piccola razione di Pukul (colpi). Io ero più che soddisfatto. Il mio principale timore era l’essere andato fin lì per qualcosa per la quale potesse non esserne valsa la pena. Invece avrei ripetuto quell’esperienza ancora e ancora. Dispiaciuto per la fine dell’allenamento e già aspettando l’allenamento del giorno successivo, mai avrei immaginato cosa sarebbe accaduto quella sera stessa.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Takuanzen on May 11, 2011, 17:41:53 pm
ok.... inizio a mettere qualcosa e vediamo come và...


PARTE I - INTRODUZIONE

Il “Frutto Amaro”. Majapahit.

Il nome di un regno dell’arcipelago malese, nato poco prima del 1300 e caduto poco dopo il 1500.
L’ultimo grande regno Hindu prima dell’avvento dell’Islam.
Isola di Java, Indonesia, il centro dell’impero Majapahit, che estendeva la sua influenza dalle Filippine a Sumatra, dal Borneo alla Malesia e Singapore.
Una lunga striscia di terre che sembrano giganteschi frammenti di un megalitico smeraldo esploso milioni di anni fa nell'azzurro del Mare di Java, tra l'Oceano Indiano e quello Pacifico.
Luoghi dove il verde ancora sovrasta con le sue sfumature e colori il monotono grigio del cemento delle metropoli. Territori dove i profumi, i suoni, le voci o i silenzi riescono a coprire l’incessante brusio di auto e prodotti della tecnologia incalzante. Dove le tradizioni combattono la loro eterna battaglia per la sopravvivenza contro l’offensiva della globalizzazione.

Il mio “viaggio” inizia da questo nome: “Frutto Amaro”, “Bitter Fruit”. Un termine simbolico. Quel frutto fu oltremodo amaro per le mille navi dell’Impero Mongolo di Kublai Khan giunte lì per punire il rifiuto di pagare i tributi. Confuse e sparpagliate, colsero l’occasione di sfruttare i venti dei monsoni per il loro dimesso ritorno a casa, a capo chino, pena l’aspettar lì in territorio ostile altri sei mesi. La controffensiva dell’arcipelago partì proprio dal villaggio di Majapahit, dove il locale frutto di nome Maja era tanto amaro da prestare il proprio nome all’omonimo villaggio, come poi il villaggio fece con il regno.

Ed è proprio una terra di villaggi e tribù, capanne e pescatori, spiagge e giungle, pianure fangose, terrazze di riso, montagne e corsi d'acqua, di foreste soffocanti, dove ogni suono potrebbe essere l'ultimo, di variopinti uccelli, bufali d’acqua, geki e grandi sauri, felini e grandi primati a fare da sfondo e sottofondo a un universo esotico e affascinante. E’ il regno del mare e dei templi, il regno di Bima, Garuda e Naga, la terra del Nagarakertagama, il principale poema epico Javanese, dove le donne portano i loro figli a tracolla nei Sarong colorati e gli uomini forgiano i loro Kriss dalla lama serpentina, scolpendovi il metallo e cesellando manici e foderi di legno pregiato e osso, infondendovi benedizioni e spiriti e demoni in quelle contrade ancora temuti e rispettati. Territori selvaggi protagonisti delle narrazioni di Emilio Salgari e Joseph Conrad.

E’ in posti come questi che nacque il nostro “frutto amaro”, dalle anime di questi luoghi, dalla loro storia e dalle loro leggende. E noi, aspiranti interpreti, ultimi umili eredi di Arti in via d’estinzione, ci facciamo carico dell’onore, dell’impegno di far sì che tale cultura marziale non vada perduta, onorando e rispettando quello spirito e quella dedizione che i padri pretendono, ed è con la loro benevolenza e benedizione, parimenti a quella degli anziani e dei nostri predecessori che speriamo di continuare il nostro comune, difficile, dolce e amaro viaggio tra spirito e materia, tra anima e sangue, carne e ossa di un'Arte chiamata Pukulan.

Non dirlo a me, che con i romanzi di Salgari ci sono cresciuto. Il Silat evoca sempre al mio cuore e alla mia mente quelle affascinanti atmosfere della mia infanzia. Lo stesso dicasi per questo tuo scritto, così denso di passione per quest'Arte... ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Muay Jack on May 11, 2011, 18:29:41 pm
Mi ero sempre domandato, vedendo i tuoi filmati il motivo per il quale terminavi le percussioni sul palmo della mano, se fosse un modo di fare o avesse un significato preciso. ora mi è piu chiaro :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 11, 2011, 18:32:52 pm
per carità..... è una cosa che si fa anche nel Kali... seppur con enfasi e traiettorie diverse...
Non confondiamo.... fa che l'Ira di Odino non si abbatta su di me anche in queste contrade...  ;)

Cmq Grazie per i commenti  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Muay Jack on May 11, 2011, 18:36:49 pm
Certamente, era solo innocente curiosità su un particolare, spero non sia motivo per creare altri disappunti
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 11, 2011, 18:43:59 pm
il motivo principale per cui lo faccio nel Kali è quello di far impattare con l'effetto "incudine martello".
Cioè far trovare la zona da colpire - che sia la testa o un bicipite, ad esempio - tra il gomito e l'altra mano, creando un effetto di forze contrapposte e intensificando l'impatto non lasciando 'sfogare' via il bersaglio...

Nel pukulan, come ho scritto, ha funzione geometrica, tecnica e didattica per il timing.... nonchè indirettamente 'condizionante'
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 12, 2011, 15:35:34 pm
PARTE X - Ecce Bruno

Ero più che soddisfatto. Il mio pensiero e la mia preoccupazione erano il rischio di dimenticare quanto visto, non aver filmato, fotografato, che con me non ci fossero le persone con le quali mi allenavo, quelli che mi erano più vicini. Volevo raccontare, testimoniare il mio entusiasmo per quanto praticato e ‘sentito’. Avrei voluto la possibilità di poter portare con me un paio di persone che in quel periodo seguivano i miei corsi di Kali e Jeet Kune Do. I più bravi. Coloro che avrebbero più potuto apprezzare l’allenamento svolto quel giorno.

Dolorante mi gettai sul letto della camera dell’Hotel. Lo stesso dove avevano prenotato tutti gli altri ragazzi che venivano da fuori regione Lombardia, dalle altre zone d’Italia. Ho fotografato e stampato nella memoria tanti momenti di quei due giorni: il viaggio, l’attesa, l’arrivo, i saluti, Walter all’entrata, chi fosse a prendere i nomi in quella segreteria improvvisata, tutto l’allenamento. Ma stranamente non riesco minimamente a ricordare con chi fossi in camera in albergo. Non ho fotografato immagini con i miei occhi che riguardano il mio compagno di camera. Incredibile. Ero talmente assorto nei pensieri, così concentrato nel ricordare tutti quei dettagli, che non ho l’immagine di chi fosse con me in camera.

Telefonai a Bruno, un ragazzo che si allenava con me da non moltissimo tempo. Frequentava la stessa palestra dove io svolgevo i miei corsi. Praticava Aikido, un grado avanzato e spesso, in assenza del maestro, era lui a condurre le lezioni. Il corso di Aikido finiva e noi iniziavamo sullo stesso ‘tatami’. Un tipo tranquillo con una faccia pacifica, biondino, la voce bassa e gentile. In principio, quando lo guardavo condurre il corso di Aikido per supplire il Maestro, non aveva suscitato le mie simpatie. Lo trovavo un po’ ‘impostato’. Praticante di stili giapponesi, ossequioso, salutava inchinandosi a ogni fine di tecnica. Aveva praticato Karate Shotokan e un po’ di Judo prima di passare all’Aikido. Il viso vagamente elfico, barba di alcuni giorni di default e due occhi sottili e chiari che si proteggevano dietro a un paio di occhialini da Nerd informatico. Il tipo che quando ti saluta neanche ti dice ‘ciao’. Troppo informale e volgare. Se si accorge che esisti si limita a regalarti un cenno del capo con leggero deficit di sorriso, tra il japan-style e il ‘Roger Moore de Mergellina’.

Ebbi l’occasione di scambiare due chiacchiere con lui una sera che ci ritrovammo nella sede napoletana di Emergency, nel centro storico di Napoli. Ci eravamo sempre evitati in palestra, forse per antipatia reciproca, forse per il fatto che entrambi parliamo poco se non conosciamo bene una persona. Eravamo lì per una sorta di breefing per un cortometraggio nel quale entrambi eravamo coinvolti. Una storia di sette segrete, antichi manoscritti, oggetti maledetti, condita con combattimenti di arti marziali. Un esperto di montaggio, uno sceneggiatore e un regista in quel periodo visionavano alcune palestre napoletane. Erano andati a cercare il Kung Fu, volendo delle coreografie spettacolari e movimenti ampi adatti alla macchina da presa. I movimenti stretti di ciò che praticavo io mal si adattavano alle coreografie che loro esigevano, ma la mia locandina in palestra aveva attirato la loro attenzione. Un kris filippino in una mano e una daga nell’altra, la divisa filippina nera bordata gialla e il mio look con tanto di cranio rasato e pizzetto mefistofelico li aveva solleticati al punto da chiedere quando sarebbe stato possibile osservare una mia lezione.

Le loro coreografie prevedevano l’uso delle armi e quando videro il mio allenamento con coltelli e lame di vario tipo mi chiesero informazioni descrivendomi il loro progetto. Anche Rino B.,  il Maestro di Aikido era stato coinvolto nel cortometraggio, dovendo anche interpretare uno dei principali personaggi della pellicola. Con lui Claudia, una bella ragazza della palestra cintura nera di Karate e Bruno.

Quella sera nel centro storico visionammo il promo del cortometraggio. Molto ben fatto. Io e lui discutemmo del Pencak Silat indonesiano. Gli accennai che conoscevo qualcosa di Silat, che i miei istruttori praticassero tale arte e lui mi raccontò di una volta in cui partecipò ad un seminario di Silat a Milano con un esperto americano e organizzato dalla stessa associazione che io rappresentavo in Campania. Mi disse che apprezzava il Silat indonesiano. Parlammo anche di altre arti marziali e capii che il modo in cui le concepivamo era molto simile.

Io e Bruno ci saremmo occupati delle coreografie delle scene di azione e probabilmente interpretato i cattivi in quegli stessi combattimenti, fungendo anche da stunt-men. In pratica, dovevamo inventarci un modo elegante per prenderle. Una punizione da girone dantesco. Vi furono delle giornate di allenamenti, clip video dimostrativi delle rispettive abilità, qualche incontro in cui non ci rivolgemmo la minima attenzione e poi i ‘cineasti’ ci suggerirono di mixare gli allenamenti tenendoci in contatto per creare scene di azione in cui il Kali e le sue armi potesse accordarsi con i movimenti dell’Aikido e le scene armate con Katana (lunga spada giapponese). Bruno e Claudia iniziarono a seguire i miei corsi per comprendere le differenze delle meccaniche del Kali filippino.

Finì che tra me e Bruno si instaurò un rapporto di stima reciproca e iniziammo ad allenarci assieme. Lo invitai a partecipare alle mie lezioni in modo stabile e non solo per preparare il cortometraggio. Accettò. Scoprii una persona diversa da come me l’ero immaginato. Leale, diretto e disponibile... al di là di quella sua aria da fratello psicopatico di Harry Potter che inizialmente mette un pò in soggezione. Ancora oggi è il mio principale compagno di allenamenti e un amico fraterno (almeno da parte mia … lui è un cinico bastardo senza cuore, quindi non so).

Lo chiamai e gli raccontai gli avvenimenti della giornata. Gli raccontai i particolari. Gli descrissi le qualità tecniche degli olandesi. Gli parlai dei lividi e delle botte 'sentite’. Espressi il bisogno di intensificare i nostri allenamenti, dicendogli che dopo aver visto quel modo di allenarsi non fosse più possibile continuare come prima facendo finta di nulla. Volevo fare tesoro di quell’esperienza. Non disperderla con la fine del seminario. Renderla utile.

Ci salutammo e iniziai a preparami per andare in pizzeria. Ci aspettava una cena di gruppo con tanto di pizza ai tulipani e racconti magici indonesiani.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 12, 2011, 15:56:18 pm
La tragedia di questa novella è che mò m'è venuto lo scrupolo di quale tshirt usare il giorno che vado allo stage di KFM... :dis:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Dottor Wolvie Killmister on May 12, 2011, 15:58:37 pm

E perché?  :-\

Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 12, 2011, 16:02:51 pm
Perchè di solito nn vado in incognito...mi piace essere associato a quello che faccio...ma ho la cazzo di scritta istruttore ovunque.... 8)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Dottor Wolvie Killmister on May 12, 2011, 16:09:09 pm

Se vuoi essere davvero low profile, usa la maglia della lazio.  :D

Dopo aver indossato quella del CKM nel negozio degli arabi, non dovresti avere troppi scrupoli..  XD

Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 12, 2011, 16:14:58 pm
Quelle militari americane nn le voglio rovinare...
Quelle del CKM sono con la scritta...
Quasi quasi riprendo una vecchia maglia da gioco...ma sai che schiuma.... XD
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 12, 2011, 16:23:21 pm
a me piace andare in incognito... metto strisce e cinturone?  ;)

Cmq il seminario di keysi penso che sia soft, al massimo ti daranno volantini per i corsi istruttori se non vedono la scritta sulla maglia :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 12, 2011, 16:31:15 pm
Le strisce mi sembrano una ottima idea....
Nn ti offendi però se al primo pallino rosso che ti spunta sul petto vado a prendere un crodino...? XD
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 12, 2011, 16:36:35 pm
sei + grosso di me... potrei usarti come scudo disumano...  :P
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Fabio Spencer on May 12, 2011, 17:51:52 pm
La tragedia di questa novella è che mò m'è venuto lo scrupolo di quale tshirt usare il giorno che vado allo stage di KFM... :dis:
Io di solito uso magliette nere della decathlon tipo: 5 magliette 10€.
E pantaloni tipo jeans comperati a 7€.
Alla lezione dimostrativa cui partecipai a Milano, prima di iniziare il corso, ci fecero comunque provare gli "agarro" e a risalire da terra con il "mono escala".
Non so cosa mostreranno a voi, ma c'è la possibilità che la maglietta si strappi.
Consiglierei qualcosa di resistente e non troppo costoso.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 12, 2011, 18:11:22 pm
Io poi gli devo strappare un dito però...... :nono:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 12, 2011, 19:03:48 pm
Io di solito uso magliette nere della decathlon tipo: 5 magliette 10€.

stesso io  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Fabio Spencer on May 12, 2011, 19:16:03 pm
Io poi gli devo strappare un dito però...... :nono:

beh... di solito si fa a turno  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on May 12, 2011, 21:00:09 pm
John, travestiti da fanchinna.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: bushi highlander on May 14, 2011, 11:29:44 am
Meglio, falle quelle benedette magliette Spartan Academy.....vedrai quanto sarai anonimo!  ;D ;D ;D XD XD XD
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 14, 2011, 11:34:45 am
non so se sia una buona idea.... magari Leonida si incazza e apre un topic dichiarando che i 300 sono ormai 299 perchè John ne è fuori...
Nell'ultimo mese la testuggine è stata modificata e lui non c'era agli aggiornamenti...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 14, 2011, 11:40:24 am
PARTE X - "Indovina che ti racconto a cena?"...

 Arrivai in pizzeria con gli altri ragazzi dell’albergo. Il lungo tavolo a forma di L era già per metà occupato dai partecipanti. Presi posto nel gruppo dei miei colleghi di corso. Spalle all’uscita e a parte del resto del tavolo. Ero quasi all’angolo dell’angolo interno. Di fronte a me, spostato più verso sinistra c’era Emilio. Superato l’angolo, ben visibili, i tre olandesi. Olivier al centro, Walter quasi di fronte a Alberto che faceva da traduttore. La sua voce mi giungeva da dietro le spalle e per guardarlo avrei dovuto pormi lateralmente sulla sedia e dare le spalle a chi era seduto alla mia destra. Si discuteva del più e del meno, della giornata, dei programmi di insegnamento dell’associazione. Antipasto, birra e pizza per tutti. Per gran parte del tempo chiacchierai con coloro che conoscevo e con i quali avevo più confidenza. Avrei desiderato porre tante domande a Walter, Olivier e Anand, ma la distanza era troppa e non ho mai amato infastidire con domande su domande. Inoltre, gli ospiti avrebbero sicuramente preferito mangiare tranquillamente senza essere importunati sull’argomento arti marziali persino in un momento di svago. Si parlò di quello.

L’argomento principale furono le arti marziali e alcuni divertenti aneddoti legati a come gli altri percepiscono la passione che accomunava noi tutti.

Il ruolo principale che Walter e Anand si ritagliarono quella sera fu lasciar fare a Olivier da mattatore. Non smise un attimo di raccontare e descrivere luoghi, persone, tradizioni, parlare dei viaggi, dell’Indonesia. I suoi due compagni di allenamento ridevano ricordando e confermando quanto Olivier ad alta voce narrasse.

All’improvviso si iniziò a parlare in modo più serio. Alberto chiese a Olivier se gli andasse di parlare del Kebatinan, l’aspetto mistico delle arti marziali indonesiane.

Non avevo mai sentito parlare o letto nulla sull’argomento. A dire il vero, fino a quei giorni non avevo mai letto nulla di particolare e specifico sulle arti marziali indonesiane. Possedevo molti libri sulle arti marziali filippine. Alcuni capitoli includevano riferimenti, accenni, ma mai nulla di specifico e approfondito. Per me un kris indonesiano o malese era un coltello. Nulla più. Sapevo solo che fosse un’arma simbolo, spesso data al raggiungimento della maggiore età o dello status di guerriero. Più un’arma da cerimonia che da combattimento. Diverso comunque dalla sua controparte filippina utilizzata come vera e propria arma da fendente dai gruppi Moros dell’isola di Mindanao nel Sud delle Filippine. Non conoscevo nulla neanche delle pratiche magiche o esoteriche dell’arcipelago malese, di come la cultura indonesiana e Javanese ne fosse intrisa. Java è un calderone di gruppi etnici in cui filosofie, credenze, persino all’apparenza contrastanti, sono fuse e mescolate in un unico corpus. Metafisica, misticismo, magia, panteismo, animismo, filosofia, ricerca di ‘sé’, spirito universale, tecniche di meditazione, caos, destino, divinità e demoni; tutto è racchiuso e racchiude altro, svela e viene svelato da altro come pezzi monodimensionali di un’astratta matrioska. Le numerose influenze culturali dell’Indonesia sono concentrate nel Kebatinan rendendolo ricco quanto misteriose impurità rendono più ricco e unico un grosso gioiello di ambra.

I praticanti di Silat sono soliti dire ‘non c’è Silat senza Kebatinan’ e l’uno anticipa o segue l’altro come un piede anticipa o segue l’altro.

Sono sempre stato un curioso. Allo stesso tempo amo leggere e capire i diversi modi che ha l’uomo di rapportarsi al divino. Amo leggere di religioni, ma non mi ritengo un credente in senso puro. Sono affascinato da come in diverse culture il divino venga interpretato e adattato alla diversa cultura dei luoghi in cui viene ospitato. Cercando di non preferire o scegliere tento di assorbire l’essenza del popolo in questione. Quando si pratica un’arte marziale credo sia fondamentale capirne l’intima natura addentrandosi nella cultura, nella filosofia, nella religione, nella storia del popolo, di conseguenza, nella storia dell’arte marziale che da quel popolo è nata che ne fa da sfondo. Non importa quanto assurdi possano sembrare i suoi assunti, ciò che conta è che siano parte integrante del background dei concetti, dei movimenti e dell’arte che si è scelto di praticare.

Mi avvicino personalmente a questi temi con curiosità e con un necessario quanto cauto distacco. Con un profondo interesse reso impermeabile da una sottile patina di scetticismo.

L’Indonesia e Java sono un territorio molto fertile per queste credenze. L’animismo era alla base di tutto e la religione prevalente sull’isola. Il credere in determinate ‘potenze’, negli spiriti della natura e in quelli dei morti, invisibili e immanenti in tutto, luoghi, persone e oggetti era comune e ordinario. Con l’avvento dell’Induismo, prima e dell’Islam, poi, la religione autoctona venne ulteriormente arricchita di elementi esterni come ad esempio il Sufismo. Ogni aspetto fu in forma maggiore o minore assorbito dai locali gruppi etnici, tendendo ad un aspetto piuttosto di un altro. Il risultato fu una originale e unica forma di Sincretismo mistico e religioso. Nonostante i diversi gruppi etnici avessero adottato una religione piuttosto che un’altra, il background culturale e storico non mancava di fare sentire una certa influenza. Ma del background storico, mistico e culturale delle arti marziali indonesiane e del Pukulan in particolare vi sarà spazio in seguito per parlarne.

Quella sera rimasi piacevolmente affascinato dai racconti di Olivier, proiettandomi con la mente nei luoghi, nei vicoli protagonisti dei suoi racconti. Per rispetto a coloro che narrarono quegli episodi non mi addentrerò nei particolari. Storie di richieste agli spiriti di luoghi, di kris magici posti a protezione sugli usci delle case e di anime ivi residenti a cui poter chiedere poteri e capacità marziali. Di strani rituali compiuti mediante petali di rosa, di ricerche di anziani e leggendari maestri, di possessioni animali, di mani che diventano come artigli e delle capacità acquisite medianti tali pratiche.

L’atmosfera era informale e il tono di voce di Olivier era quello di qualcuno che parla con scioltezza e naturalezza di tali argomenti con un fare allo stesso tempo rispettoso e divertito.

La cena proseguì piacevolmente e l’atmosfera era amichevole.

Non si sentiva la loro presenza come quella di esperti venuti da fuori a regalarci chissà quale conoscenza o chissà quali rivelazioni marziali. Non era una cena di circostanza, dovuta perché impossibilitati a rifiutarsi per cortesia. Loro si divertivano quanto e più di noi, con Olivier concentrato a protrarre la serata a piatti svuotati, avanti ad un amaro e a un caffè e in attesa che le facce dei ristoratori iniziassero a diventare impazienti invocando, senza proferir favella, l’agognata chiusura.

La serata al ristorante terminò e ci salutammo tutti, dandoci l’appuntamento per la seconda giornata del seminario. Ci incamminammo verso l’albergo, l’aria era fredda e umida e le spalle di ognuno di noi erano sollevate a protezione del collo dall’attacco degli spifferi. Avanti a noi i tre olandesi e a seguire noi, io e i miei colleghi istruttori venuti dalle altre regioni d’Italia.

Tutti eravamo diretti al medesimo albergo. Ci si rincontrò nella hall, in fila per prendere le chiavi delle camere, sorriso, un rapido scambio di battute in lingua neutra, l’inglese, poi alcuni dei ragazzi decisero di avventurarsi coraggiosamente nella gelida nebbia alla ricerca di un locale notturno mentre noi altri optammo per il riposo.

Mi chiesi più di una volta se tutti quei racconti non fossero stati programmati dai tre stranieri per prenderci per il culo e li immaginai a fine serata nella loro camera a ricordarsi e descriversi ridendo le facce di noi italiani che si erano sciroppati le loro storielle inventate, precotte o più o meno improvvisate.

Ma così non fu.

Loro non avrebbero riso sbeffeggiandosi di noi, mentre noi restanti quattro non avremmo raggiunto il sospirato riposo se non a notte inoltrata, poco prima delle tre del mattino.

Ci aspettavano altre due ore circa di inaspettato allenamento notturno.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on May 14, 2011, 14:23:14 pm
:grrr: ma insomma!? ti sembra un punto a cui si può interrompere la narrazione!?

:sur: :sur: :sur:
:)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on May 14, 2011, 14:44:11 pm
Quote
non ho mai amato infastidire con domande su domande.
L' opposto del sottoscritto, in pratica.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: gyria on May 14, 2011, 19:49:40 pm
Per seguire.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 17, 2011, 10:54:10 am
PARTE XI – "Show Good... or Don't Show!"

 

“Andate a dormire o vi allenate con noi?”. La domanda a bruciapelo di Walter ancora riecheggia nella mia testa tra un orecchio e l’altro come una palla di ping pong. Quei tipi, dopo una giornata intera di allenamento, dopo una serata a parlare di arti marziali, avevano voglia di allenarsi? Con noi sconosciuti? Abituato ai seminari in cui il gran maestro di turno dà piccoli spunti col contagocce per non svelare i propri segreti, non credevo a ciò che avevo appena sentito chiedere. E se a Alberto non avesse fatto piacere? E se volessero usarci per allenarsi loro e usarci come sacchi? E se avessero voluto invece sodomizzarci? Tra di noi c’erano due altri istruttori più avanzati di me dell’associazione, e ritenni opportuno accettare l’invito in quanto essendo Andrea, l’istruttore di Frosinone, molto vicino a Alberto, non vi sarebbe stato nulla di nascosto o fatto alle sue spalle. E poi, erano stati stesso loro ad invitarci. Così, dopo esserci guardati stupiti, accettammo l’invito e salimmo a piedi le scale che ci avrebbero portati in camera loro. Io, Andrea da Frosinone, Vitaliano da Assisi e Domenico dalla Calabria. A bassa voce, mentre percorrevamo il corridoio espressi il mio timore principale e quello secondario: “ragazzi, questi o ci inculano o ci menano”. Non riuscivo a credere come i tre olandesi potessero invitare degli sconosciuti in camera per allenarsi e non a fini di lucro mostrarci il Pukulan senza secondi fini.

Entrai non senza imbarazzo. Personalmente mi sentivo un po’ a disagio. L’idea di essere lì e ricevere informazioni da loro senza poter dare nulla in cambio non mi faceva stare a posto con la coscienza. Cosa avevo fatto per avere gratis altro Pukulan? A che scopo chiederci di salire e allenarsi con noi quando avrebbero potuto farlo tra di loro e molto meglio? Pensai che probabilmente dovevamo fare da ‘carne da allenamento’.

Si appoggiarono sul letto di fronte a noi. Walter al centro, Anand alla sua destra e Olivier a sinistra. Io rimasi in piedi.

Walter ruppe il ghiaccio. “Allora ragazzi.. vi siete divertiti oggi? Vi è piaciuto?”. Con molta cialtroneria abbozzai un si sorridendo quasi a mostrargli che si, avevo gradito, ma che nella mia carriera marziale ne avevo visti di esperti in gamba come loro. Non amo sbavare dietro ai personaggi famosi e se mi trovo avanti a qualcuno che ne sa più di me lo lascio aprirsi e parlare per saggiare le sue conoscenze e quanto ha voglia di ‘dare’ di se stesso. Così feci. Parlai poco, chiesi poco. Inoltre avevo timore di approfittare della loro disponibilità. I due istruttori di Frosinone e di Assisi più anziani di me dal punto di vista della militanza nell’associazione risposero ad alta voce e furono più estroversi. I rapporti deterioratisi con Alberto e il clima di spionaggio cui ebbi modo di assistere in alcune occasioni mi suggerirono di fare da testimone più che da protagonista di quella sera, restando in secondo piano. Non volevo che il giorno dopo si potesse dire che io avevo incalzato con le domande tentando di rubare chissà quali segreti del Silat. Ero certo che i particolari di quella notte in camera sarebbero giunti a Alberto e al suo più accondiscendente socio Emilio. Così fu. Il rapporto di fiducia s’era già incrinato alcuni mesi prima e avevo iniziato a muovermi con circospezione in seno a quell’associazione. Mi fidavo di non più di un paio di persone ormai: Simone di Aprilia e Giovanni di Alba. Gli altri li vedevo come un meccanismo piramidale facenti riferimento a Alberto all’apice e gli altri a scalare, intenti a passarsi indiscrezioni e informazioni per segnalare i comportamenti del loro collega. Il perché di quel clima da Kgb non lo compresi mai e ne mi curai più di comprenderlo in seguito. Certi meccanismi di controllo dopo un po’ si smascherano da soli e ci si adatta o si finisce col sentirsi scomodi. Un perverso meccanismo dei rapporti umani insegnante-allievo che si sarebbe reinnescato anni dopo: diversa arte, diverse persone, stessi meccanismi.

“Forza”, continuò Walter, “chiedeteci quello che volete”. Stupore!

L’istruttore di Assisi incalzò Walter con le domande. Una tecnica, poi l’altra, quel particolare, quella posizione, e se io reagisco così, e se mi muovo così…. I tre olandesi si alternavano nelle risposte, dando le proprie interpretazioni senza contrastarsi. Ognuno di loro arricchiva della propria esperienza la spiegazione dell’altro senza accavallamenti. Le domande erano precise, le risposte semplici e concrete. Niente movimenti superflui, massima semplicità. Walter era assai meno duro nelle entrate, non causando eccessivo dolore. Era lì per spiegare e lasciarci comprendere in modo rilassato i dettagli senza lasciare che il timore di una botta forte potesse farci sfuggire i meccanismi.

Lo spazio era ristretto. Walter illustrava alcuni passi della posizione/spostamento ‘Cinque’ e di come fosse semplice, per lui, impattare verso la caviglia o il malleolo dell’aggressore. Indossava mocassini e la suola di cuoio venne a baciare le ossa delle nostre caviglie e malleoli lasciando che intravedessimo solo un lieve spostamento delle sue spalle, distogliendo la nostra attenzione per il dolore mentre le sue braccia controllavano impattando decisamente le nostre e lasciando arrivare le sue nocche alla punta del nostro mento. Lo fece ‘sentire’ a tutti. Rimanere concentrati su cosa facessero le sue braccia mentre il dolore alle gambe si faceva sentire in modo pungente era difficile, e per quanto tentassimo di prepararci all’impatto, sapendo in anticipo cosa avrebbe fatto, fu difficile evitare e contrattaccare. Ogni tecnica era accompagnata da tante varianti, ma tutte logiche e semplici, niente movimenti eccessivi, tutto strettissimo, attuabile in quello spazio stretto tra i letti e una scrivania.

Restammo in quella camera per più di due ore. Occasioni di vedere altro e poi altro non mancarono. Capitò che fu difficile seguire tutti quando Walter mostrava alcuni movimenti e principi a uno di noi e Olivier o Anand erano presi a spiegare i loro ad un altro. Fu illuminante e le tecniche erano intervallate da numerosi aneddoti di vecchi maestri e dei loro modi di fare.

Tornarono a sedersi di fronte a noi. Si parlò di tecniche e di comportamento reciproco, di combattimento e non solo.

Walter, di nuovo seduto tra i suoi due amici, spiegò: “Come dicevo questa mattina, per noi il Pukulan è molto importante. Non è solo un’Arte Marziale, ma uno stile di vita. Se lo si vuole praticare lo si deve fare in modo completo. Il Pukulan influenza tutto ciò che siamo e la pratica e l’Arte non finisce con l’allenamento, è qualcosa che c’è sempre. Sempre lì. Entra nel carattere della persona. Lo influenza e ne è influenzato. Il mio Pukulan sarà quindi diverso da quello di Anand o di Olivier. Assorbe dal mio carattere e dalle mie esperienze, ma allo stesso tempo plasma il carattere attraverso anni di allenamento duro. Il dolore cambia le persone. Qualche volta le migliora e qualche volta le peggiora, questo dipende dalle predisposizioni. Dall’indole di base. Dipende dal praticante. Tuttavia cerchiamo di far restare l’Arte per pochi. Pochi elementi selezionati. Solo così ci assicuriamo uno standard elevato. I perditempo li eliminiamo, ma spesso si eliminano da soli. Le Arti Marziali, come le intendiamo noi, non sono per tutti. Il Pukulan lo è ancor meno. Ma allo stesso tempo, praticare qualcosa escluso alle masse ci avvicina. Ci rende partecipi di qualcosa di unico. Io considero Olivier e Anand miei fratelli. Loro sanno che io ci sono sempre e io so che loro ci saranno sempre per me. Noi sentiamo se c’è qualcosa che non va nelle vite l’uno dell’altro, ci aiutiamo e allo stesso tempo sentiamo la presenza degli anziani e dei nostri predecessori, il loro sguardo benevolente o meno. Io so che come posso chiedere a loro due, posso chiedere ‘aiuto’ agli antenati dell’Arte, se secondo loro mi sarò comportato bene. Noi diciamo ‘se vendi la tua Arte vendi te stesso’. Se mi sarò comportato bene loro mi aiuteranno nell’apprendimento e nei miglioramenti. Ma devo meritarlo. Allenandomi e rispettando ciò che pratico, me e gli altri. Nel Pukulan si è sempre fatto così, ma sappiamo che non tutti hanno agito allo stesso modo, cercando di trarne guadagni e commercializzare qualcosa che non avrebbe dovuto essere svenduto. Per questo non abbiamo problemi a mostrare dettagli, spiegare le tecniche, non abbiamo segreti. L’unico segreto, se proprio ne vogliamo cercare uno, è l’allenamento costante, anno dopo anno. Possiamo mostrarti una tecnica mille volte, ma se non la alleni è tutto inutile; e sappiamo che quella tecnica deve essere allenata per anni. Proprio per questo, nel Pukulan siamo tutti principianti. Non vi sono gradi, cinture, maestri, corsi veri e propri. Ci sono praticanti più anziani che per passione trasmettono le proprie conoscenza acquisite ad allievi più giovani. E parlo sempre di anzianità di pratica. Non insegnamo. Ci alleniamo semplicemente. Proprio per questo non abbiamo il minimo problema a mostrarvi tutto ciò che chiedete. Senza allenamento è inutile, ma amiamo mostrare ciò che amiamo tanto. L’Arte che pratichiamo. E se lo facciamo lo facciamo nel miglior modo possibile. Senza risparmiarci mai. Un'altra cosa che spesso ci diciamo è ‘show good… or don’t show!’. Ossia, ‘fallo bene o non farlo’, ‘dai il 100% o non dare nulla’, ‘dimostra bene ciò che sai fare o non dimostrare nulla’. E ciò per noi vale non solo nel Pukulan, ma nella vita in genere. Fa parte del nostro ‘Adat’, il nostro codice di comportamento tra noi e con gli altri. Mostriamo a chiunque, come abbiamo fatto con voi questa sera, ma sappiamo che abbiamo da imparare da tutti. Il corpo insegna, la carne insegna. E dalla vostra ‘carne’ stasera abbiamo appreso forse più di quanto voi avete appreso da noi in così poco tempo. Abbiamo visto cosa fate, come vi muovete, i vostri riflessi, abbiamo sbirciato, attraverso le vostre movenze, ritmi e strategie, ciò che è il vostro background marziale. Facendone tesoro. Non vi abbiamo insegnato nulla, il nostro, stasera, è stato uno scambio. Gli anziani, nel trasmettere l’Arte, da sempre fanno questo. Chiedono di essere attaccati e studiano il proprio allievo così come l’allievo studia le movenze del più esperto. Osserviamo sempre. Se avete altre domande, quindi, fatele senza problemi. Siamo qui per questo. Chiedeteci tutto ciò che volete sapere e saremo lieti di darvi qualunque risposta le nostre conoscenza ci permetteranno di darvi”.

Non avevo mai sentito parlare così delle Arti Marziali. Si sente spesso di persone che si allenano ancora alla vecchia maniera. Duramente, per pura passione. Una trasmissione di tipo familiare e non da iscrizione in palestra. Ero frastornato dalle informazioni che Walter Olivier e Anand ci davano. Rimanemmo con loro per quasi tre ore. Ci mostrarono tante cose, ce ne spiegarono altrettante. Tecniche, concetti, strategie, spostamenti. Avrei voluto una telecamera o un registratore per poter mostrare a chi si allenava con me persone come loro. Condividere. Tante furono le cose che ci spiegarono che il mio cervello iniziò a non assorbire più nulla nel timore che finito l’allenamento del giorno dopo, non avrei più visto praticanti come quelli, con quella tecnica, con quella mentalità, forse nella mia vita. Subentrò una certa malinconia. Quella dovuta al fatto che tutto ciò che stavo vedendo si sarebbe perso negli anni, scivolando via dalla mia memoria e riadattandomi agli standard marziali fatti di certificazioni, cinture e finti maestri autoproclamatisi tali dopo pochi anni di allenamento.

Si fece tardi e con tristezza salutammo e ringraziammo per la disponibilità.
Walter ci sorrise e salutandoci rispose: “Niente Grazie. Nel Pukulan non si ringrazia!”.
Presi sonno dopo molto tempo. Come se l’indomani avessi dovuto dare un esame a scuola, ripetevo e ripetevo quei movimenti, quelle frasi, per fissarle nella memoria. Mettervi un lucchetto e tenerle nel forziere dei ricordi.
I muscoli erano doloranti. La mente stanca. Frasi, aforismi e movimenti di quell’Arte bombardavano i miei pensieri non lasciandomi abbracciare dal sonno.

Mi aspettava il secondo giorno di seminario e avremmo visto cose diverse dal primo.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Semiautomatic Monkey on May 17, 2011, 16:24:24 pm
Frammenti di Te. Belli e utili.
Grazie
Michele
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ale_ale on May 17, 2011, 17:29:48 pm
Frammenti di Te. Belli e utili.
Grazie
Michele

forse mi riesce di sverginare un karma!  :ricktaylor:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Wa No Seishin on May 17, 2011, 17:40:40 pm
Novellino...:nono:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Semiautomatic Monkey on May 17, 2011, 17:47:04 pm
Il gatto me l'hanno già aperto in due. Pora bestia. ;D ;D ;D
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ale_ale on May 17, 2011, 19:04:09 pm
Novellino...:nono:
:-[ è la fretta della prima volta ;D  ;D
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Semiautomatic Monkey on May 17, 2011, 19:24:34 pm
Sverginamento precoce? Niente che una buona reincarnazione non possa curare... :P
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Jack Burton on May 18, 2011, 09:09:23 am
karma sverginato!   :ricktaylor: :pol: :ricktaylor: :whip: :pun:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on May 18, 2011, 14:41:10 pm
Claudio complimenti vivissimi per la narrazione, non vedo l'ora di proseguire nella lettura.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on May 18, 2011, 18:31:06 pm
karma sverginato!   :ricktaylor: :pol: :ricktaylor: :whip: :pun:
Quoque tu, Burton, filii mii.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Semiautomatic Monkey on May 18, 2011, 18:36:10 pm
La piantate di sverginarmi?  ;D ;D ;D ;D
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Giorgia Moralizzatrice on May 18, 2011, 18:43:19 pm
Eh quando uno inizia con un gioco nuovo poi gli altri dietro.. (attenti ai trenini..) e non la si finisce più
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 20, 2011, 09:21:17 am
APPENDICE B - Terribili Simmetrie...

Inizio XX secolo.
Madura.
Dall’alto è un gigantesco fossile di celacanto adagiato in un cielo liquido di nuvole e coralli.
Sotto le sue spalancate fauci giace Surabaya. A nord il vuoto silenzio dell’Oceano Indiano , su fino al Borneo. Di fronte a sé l’isola di Java.
Notte.
L’oscurità inghiotte colori e sfumature rendendo i contorni sfocati e imprecisi.
Il piccolo villaggio è a pochi metri dal mare. Risacca e vento creano una melodia sostituendosi al Saronen, il flauto tipico della musica tradizionale Madurese. I tamburi sono percossi aritmicamente da due giovani ai limiti del centro del villaggio. Colgo il movimento delle loro bianche palme un attimo prima di percepire il suono come il lampo precede il tuono.
Alcuni anziani mi guardano scettici mentre mi soffermo a osservare ai piedi delle palme un pallido ‘jukung’ (trimarano) acquattato tra ciuffi d’erba e dune di sabbia come un grande ‘macan putih’, la tigre bianca, rispettosa e in esitante attesa della fine del rituale per balzare e divorarmi, rivelandomi le sue terribili simmetrie.
“Tyger Tyger burning bright......”. (W. Blake)
Il vento cresce. Una candida vela ancora issata frusta oscillando cullandosi nel vento fino a coprire le percussioni di bambù. L’intensità aumenta con i miei battiti, un bambino scatta ripreso da un anziano ad ammainare la vela.
I Tongtong incalzano. Il sangue è versato.
Una gallina sacrificata per spargerne sangue nel luogo di allenamento a sostituire simbolicamente il sangue che dovrebbe essere versato dallo studente. Rivoli e piccole pozze riflettono cupi i riflessi delle lanterne accese ai limiti del cerchio.
Avanzo al centro. Scalzo. La calda umidità del sangue misto a terreno attira la mia attenzione ai passi che compio. Sono al centro. Il centro dell’universo. Sono al centro di un poligono proiettato dalla mia fantasia. Un diamante di polvere e sabbia e sangue.
Uso l’alluce per disegnare a terra. Triangoli, quadrati, linee, bisettrici, rette, angoli, vertici.
Il diagramma è pronto. Immagino il vento che lo fa ruotare vorticosamente.
I Tongtong aumentano di intensità. Il bambù emette note uguali ma diverse come i flebili visi che mi osservano e mi giudicano. Le voci si placano.
Sono in piedi. Sono il centro.
Non sono io ad illuminarmi di immenso, ma l’immenso a illuminarsi di me.
Non esiste nient’altro.
Qui. Ora.
Controllo il respiro, socchiudo gli occhi. Mi raccolgo. Si comincia!
Piedi uniti. ‘Siap’: ‘Sono pronto!’.
Porto le mani accanto al torace, palmi in su. ‘Hormat’: ‘Onore!’.
Congiungo le mani come in segno di preghiera avanti al viso.
Il primo degli attacchi giunge da destra.
‘Tre’.
Intercetto colpendo e sibilo fuori il respiro. Un colpo duro all’articolazione del gomito del mio avversario. Defletto la sua linea. Ora è la mia. Affondo le mie unghie nella sua carne, stringo come per strappargli la pelle mentre la mano scivola verso il centro del suo avambraccio.
L’altro mio braccio fa leva contrapposta dietro il suo gomito.
Riprogetto la sua articolazione mentre scappello la sua rotula col tallone.
Riconquisto una posizione stabile su una retta, il mio peso è giù, lui viene con me.
‘Cinque’. Cambio idea e direzione. Gli suggerisco un’altra via incontrandolo mentre arriva con la punta del mio gomito, ma incoerente gli suggerisco ancora la direzione precedente colpendo con le nocche dietro l’orecchio e ancora su.
Schiaccio avvitando la mia tibia nella sua, spazzandolo al suolo. Il prossimo.
I piedi segnano una ‘T’, continuano a girare.
Arriva alle mie spalle. Sento il suo respiro.
Colpisco il suo attacco con l’interno del mio polso, lui ne è sbilanciato in avanti mentre le mie dita vanno alla sua gola. E’ sul vertice del mio triangolo. Completo con le nocche al viso.
Di nuovo a destra, mi muovo sulla stessa linea.
‘Cinque’.
Il mio bersaglio ancora la rotula. Frusto all’inguine e riattacco alto. Raddoppio.
Un altro di fronte. Prima che metta il piede a terra sono nella sua base d’appoggio. La sua tibia è mia. La mia cresta tibiale si infrange nella sua gamba incollandolo a terra. Colpisco dal basso come a conficcare le nocche nel suo bassoventre quando un altro bastardo mi prende alle spalle. Mi avvito di 180° scendendo. Sono accovacciato a gambe incrociate al suolo, non gli offro tempo, la forza di gravità e il mio peso concentrato nel mio gomito è tutto nel suo menisco. Il mio viso contratto una maschera di rabbia a lungo sopita. Un salto e sono di nuovo in piedi a gambe piegate. Un nuovo aggressore si avventa tentando un calcio circolare. Spezzo la distanza e afferro la sua caviglia. Con forza la strattono verso di me mentre il mio gomito impatta in direzione opposta. Rumore sordo di ossa. E’ giù! Calcio verso il basso, finendolo.
Ancora alle spalle. L’adrenalina è in aumento. I miei occhi spalancati. Si avvicina troppo e gli pesto con violenza il piede, mi giro.
‘Tre’. Tenta di colpirmi, defletto e gli stampo la nocca del dito medio alla punta della sua mascella. Ripeto dall’altra parte assicurandomi che non ci riprovi vado in ‘Quattro’ allontanandolo con una gomitata verticale allo sterno quando un altro vigliacco arriva da direzione opposta. Frusto il suo viso, gli afferro il braccio e risalgo verso la sua gola, due colpi di taglio da entrambi i lati, poi una mano alla nuca e lo tiro a me mentre picchio col gomito al plesso solare. Ora è l’altra mia mano che frusta aperta dietro la sua nuca. Lo porto giù e ancora di gomito dietro la nuca.
Mantengo la posizione semi accovacciata. Voglio che notino quanto sono in grado di mantenerla.
Le mie mani sono artigli. Le mie pupille dilatate. I denti in mostra. Il sudore e il vento mi danno la sensazione che tutti i peli del mio corpo si drizzino. O forse è altro.
Sento ogni granello di terra sotto i miei piedi, tutti gli odori, tutti i suoni.
I ragazzi suonano, gli anziani guardano. La luce delle lanterne oscilla al vento trasformando il centro del villaggio in un’enorme fornace dalla quale l’aria calda sale vibrante e irrespirabile.
A terra centinaia di orme. Il diagramma è quasi scomparso, cancellato dai miei movimenti.
Un nuovo immaginario avversario alle mie spalle. Prepara il colpo mentre finto e colpisco con le nocche il viso, poi basso, di nuovo alto. Entro nella sua guardia deflettendogli il braccio. Lo spezzo e defletto l’attacco di un nuovo avversario in direzione opposta mentre frusto l’inguine. Ripeto la strategia vincente: alto, alto, basso, alto, schiaccio spazzando di tibia e mi giro ancora.
Il villaggio ruota con me.
Un altro tentativo di calcio circolare.
Vado in ‘Tre’. Il mio gomito, verticalmente, colpisce la gamba in arrivo. Un movimento verso l’alto, voglio che la sua rotula arrivi a serafini e cherubini. Ma che qui quaggiù per lui resti un inferno. Il colpo mi apre la via per altro. La mia mano va a cercare i testicoli dello sfortunato.
Stringe, ruota, strattona mentre l’altra spinge in direzione opposta con una palmata allo sterno.
Da ‘Cinque’ in ‘Tre’.
Paro con violenza un pugno e le nocche delle mie falangi si conficcano nella gola del nuovo aggressore materializzatosi di fronte a me. Finito.
Dietro. Un fantasioso calcio girato si infrange contro le corna di un bufalo d’acqua formate dai miei due avambracci, mentre la mano afferra ancora il cavallo dei pantaloni dell’avversario, tirando verso l’alto, mentre l’altra mano schiaccia verso il basso. La mia gamba spazza. E’ a terra. Entro nella sua guardia pestandogli tutto il possibile prima con un piede, poi con l’altro e frusto verso il basso.
Ringhiando mi volto a fronteggiare il prossimo.
‘Tre’.
Non c’è nessuno.
Gli aggressori sono evaporati dalla mia fantasia come la polvere causata dai miei spostamenti. Sangue e terra sono ‘Uno’.
La polvere è penetrata dalle narici e la gola è secca.
Digrigno i denti. La fame non è placata.
Il mio viso è rivolto nella stessa direzione con la quale ho iniziato.
I miei piedi non esattamente nel medesimo punto.
Non bene!
Unisco le mani al torace. Le congiungo avanti al viso in segno di preghiera.
I tamburi silenziosi. Singoli battiti echeggiano timidi in attesa di commenti.
Le facce degli anziani riappaiono avanti ai miei occhi, svettanti da quegli scuri abiti immersi in quella stessa incolore oscurità.
Calmo il respiro e attendo.
Mi ignorano. Come se non avessi neanche iniziato.
Non ho bisogno di cenni ne di altro.
Il vento soffia meno. I tamburi ricominciano.
Io faccio lo stesso.
Il Pasangan è da ripetere.
Mani giunte. ‘Hormat’: ‘Onore’. Ma non ce n’è per me.
Non finché non vedrò un’ombra di compiacenza disegnata sui volti di quei vecchi sempre troppo dannatamente insoddisfatti ed esigenti. Indifferenti al mio impegno.
Che la tigre continui a brillare nell’oscurità della foresta e rimandi il suo pasto.
L’allenamento è ancora lontano dall’inizio.
Entro l’alba brillerò più di lei.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ale_ale on May 20, 2011, 11:10:22 am
Un paio di volte ho pensato "ahia! che male"  :'(
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 23, 2011, 09:57:22 am
PARTE XII – "Questa è... struttura!"

 

Sveglia all’alba. Umidità a grappoli. Aria fredda e l’appuntamento a metà strada tra l’albergo e la vicina casa di Alberto. Si parte.
Arrivammo al palazzetto quasi tutti assieme. Alcuni erano già lì in attesa. Gli olandesi in macchina con il direttore tecnico e moglie.

Il palazzetto si riempì subito di tutti i partecipanti, gli spogliatoi presi d’assalto per accaparrarsi un posto per le giacche e via subito nel campo di basket a scaldarsi. Le scarpe sarebbero state tolte all’ultimo momento. Un divertito e compassionevole sguardo ai partecipanti intenti a indossare alla meno peggio il loro Sarong appena acquistato e il secondo giorno di allenamento iniziò con il medesimo riscaldamento condotto da Anand.

Alberto, Emilio, Walter e Olivier chiacchieravano attorno al diagramma formato a terra col nastro adesivo. Alberto chiedeva delucidazioni compiendo piccoli passi sulle linee mentre Olivier gli dava indicazioni con la mano seguendone linee e angoli.

Sarò breve.

Ripetemmo i Jurus visti il giorno prima e vedemmo qualche nuovo colpo a vuoto.

Ci posizionammo su un’immaginaria linea retta. Le ginocchia indicavano un angolo maggiore a 90° confronto alle spalle. Le gambe ben piegate. Dalla ‘Quattro’ alla ‘Cinque’.

Diamine che posizione scomoda e dura da tenere. “Come si fa a combattere da qui?” pensai. Eppure l’avevo vista eseguire in modo così naturale e semplice appena poche ore prima nello stretto spazio della camera.

“Questo è ‘Cinque’!”. Esclamò ad alta voce Walter.
Mi tornò alla mente la frase di Morpheus che introduceva un inesperto Neo al programma di spiegazione di cosa fosse Matrix: “Questo è … Struttura!”.

Effettivamente la ‘Cinque’ aveva una struttura complessa.

Partire dalla ‘Quattro’ ruotando così tanto il busto e mantenere allo stesso tempo le ginocchia in direzioni opposte e aperte era scomodo, complicato e richiedeva controlli e una consapevolezza corporea spropositata. “Non si può combattere e avere sotto controllo tutti questi parametri”, pensai.

“Ieri abbiamo visto un po’ come si cammina”, disse Walter, “oggi vediamo come si affonda nell’avversario. La ‘Cinque’ si usa per finire. Ma non solo, mi ci posso anche spostare ed è una posizione che mi permette di avere sotto controllo tutta l’area circostante a 360°”. Mosse le braccia in tutte le direzioni, senza spostare i piedi si girò di 180° e coprì gli angoli rimanenti. “Questa posizione/spostamento richiede molta molta pratica e molto allenamento. Ci vuole tempo per riuscire a sentirla comoda e naturale”.

La ‘Cinque’ è un cuneo. Una freccia giunta a bersaglio e con la punta conficcata in profondità.

Piedi, ginocchia e punto d’impatto sono sulla stessa linea. La ‘Cinque’ è una struttura architettonica regolare e coerente in cui la metà inferiore è rivolta in una direzione e quella superiore spostata di almeno 90°. Gradi che permettono il caricamento dei colpi in una direzione e in un’altra, passando in un lampo attraverso la ‘Quattro’, ad un’altra ‘Cinque’ sulla parte opposta senza interruzioni. Nocche-gomiti-nocche, gomiti-nocche-gomiti, mentre le spalle ruotano e girano di 90° su 90°. Il ginocchio ‘spia’ il ginocchio avversario, il mutare d’altezza ‘chiede’ all’avversario di cambiare equilibrio. Non conta cosa si colpisce ma come. Si segue la linea. Se sulla linea c’è un avambraccio, va bene quello. Se c’è il dorso di una mano, non si va per il sottile. La freccia vi passa attraverso diretta al bersaglio primario, bucando e passando attraverso tutto ciò che trova sul suo cammino. La meccanica deve essere perfetta, le linee rispettate, il peso corporeo perfettamente bilanciato, le gambe due pistoni che salgono e scendono aggiungendo peso ai colpi.

Walter chiamò Anand a fargli da assistente. Ci guardammo prevedendo nuovi impatti. Così fu.

Walter eseguì una serie di violente entrate nella guardia di Anand, colpendo di braccia o gomiti e contemporaneamente impattando tibia su tibia con una determinazione che sapeva di sadomasochismo. Ancora una volta, il sonoro fu gestito da noi partecipanti. Ci lamentammo noi per Anand. Come era possibile assorbire quelle botte? Come era possibile partire pensando di andare a sbattere ossa su ossa in quel modo, fregandosene, noncuranti del dolore. Quanta determinazione, rabbia o aggressività erano necessarie? Quanto questi attributi potessero essere allenati e coltivati?

Walter spiegò: “Quante persone sono allenate a entrare così e sopportare tali impatti? Noi lo sappiamo, lo accettiamo. Sappiamo che se il dolore non viene gestito e usato assorbe la mente. Non è possibile pensare ad altro. Se ne viene fagocitati. Ma se sono allenato lo gestisco, lo uso, lo sfrutto, ne prendo forza, mi carica. Non mi blocca, anzi, mi spinge a dare ancora di più. Per questo è necessario allenarsi con realismo. E si arriva a un punto in cui sai che non puoi ricevere più dolore di quanto tu non sia già abituato a gestire. Un punto in cui il dolore ti insegna. E’ il tuo alleato. Non lo temi più. Ma a tutto ciò si arriva in modo progressivo, o se ne ricevono danni”.

Anche Alberto fu chiamato a fare da assistente. La malaugurata idea di fare una domanda diede spunto a Walter di usarlo come cavia. Sapeva che gli sarebbe entrato nella tibia utilizzando la ‘Cinque’. Alberto, il primo istruttore italiano del leggendario Dan Inosanto, lui, uno dei cinque membri mondiali della famiglia di un’esclusiva Arte indonesiana, colui che per primo scrisse articoli su tali stili marziali, uno dei primi italiani a introdurre le arti marziali filippine e indonesiane e l’arte di Bruce Lee in Italia, il membro fondatore di una delle più importanti associazioni per le arti marziali del Sud-Est Asiatico, nonché la prima associazione in Italia storicamente e numericamente … indossò impavidamente un ingombrante, imbottito paratibie da portiere da Hockey sul ghiaccio. Preoccupato in viso, alzò le mani mimando la richiesta di non esagerare nell’entrata. Walter sorrise. “No, no. Don’t worry!”. Mentì! Indossare quegli affari è per un praticante di Pukulan un invito a nozze. Rappresenta la possibilità di poter testare il proprio impatto preoccupandosi meno di procurare danni al compagno di allenamento.

In effetti Alberto, poi seppi, aveva già saggiato la tibia di Walter in un’altra occasione. Quando, conoscendolo da poco, aveva ingenuamente in tono di sfida chiesto a Walter, decantando il suo Jeet Kune Do: “Ma se faccio così, tu che fai?” e appena s’era mosso compiendo un passo in avanti, Walter gli aveva fulminato la tibia a perenne ricordo

Sconcertati e preoccupati ci accingemmo a provare la ‘Cinque’. Difficile e ostica da eseguire. Complicato da tenere l’equilibrio. Non esagerarono nelle applicazioni, le spiegazioni furono più tecniche e meno dure, avevano già ampiamente dimostrato le loro capacità di impatto il giorno prima.
Non facemmo in tempo a tranquillizzarci che passammo a vedere come nel Pukulan si para un pugno. Ma non avevano detto che nel Pukulan non ci fossero parate?

L’istruttore di Assisi fu scelto per assistere Walter.

Un rapido passo in avanti e un diretto anteriore destro. Walter si spostò di pochissimo anticipando il colpo e usò l’osso del polso nell’interno dell’avambraccio del malcapitato. Un colpo secco e netto, pochissimo caricamento. Una leggera frustata. Un suono sordo. L’istruttore di Assisi si piegò su se stesso mantenendosi e strofinandosi il punto di impatto. Si riprese dopo alcuni secondi. In quel frattempo Walter avrebbe potuto colpirlo altre cinque volte e finirlo. Si provò di nuovo. L’istruttore girò il polso offrendo la parte interna del polso, tentando un pugno verticale. Walter gli spiegò che in quel caso avrebbe colpito i nervi, causando più danni, e che sarebbe stato meglio sopportare il dolore all’osso del braccio invece di ricevere un forte trauma ai nervi. Questa volta Walter diede un’angolazione diversa al suo colpo. Il braccio dell’assistente volò in una diversa direzione.

“Se avete notato”, spiegò, “ho usato una linea diversa questa volta. Posso colpire su diverse linee e ognuna mi da una diversa reazione del mio avversario, offrendomi nuovi bersagli”. Lo colpì con un leggero impulso verso il basso, l’assistente si abbassò per il dolore portando giù la testa. Le nocche di Walter erano già pronte lì ad aspettarlo. Lo colpì ancora dall’interno, l’assistente allargò il braccio facendo compiere una rotazione all’intero corpo. Walter incalzò d’incontro sull’altro lato. “Posso entrare più dentro tagliando”, aggiunse. L’istruttore attaccò ancora e Walter spostandosi leggermente più dentro colpi tagliando la linea verso il bicipite dell’assistente, schiacciandolo verso il basso. “Sono io a decidere e pilotarlo. So già che reazione avrà e solo allenandomi e facendogliela sentire, almeno un po’ ogni volta, testerò i miei colpi, le sue reazioni e le linee che verrà a coprire”.

Ringraziò l’istruttore di Assisi il cui braccio copriva varie sfumature di rosso e iniziammo a praticare quell’entrata. Un po’ tutti sentimmo sia Walter, sia Anand, sia Olivier. Ma ciò che più mi colpì fu che quando fu lui ad offrirmi il suo braccio per farsi colpire, in effetti fu lui a colpire me. Fui io a provare dolore, costringendomi a fermare il test al terzo colpo violento. Terzo colpo violento per lui. Per me erano stati violenti anche i precedenti, ma lui insistè che non lo fossero ancora abbastanza. Colpii con tutta la forza e andai a scontrarmi contro un blocco di cemento immobile. Non fui capace di spostarlo di un centimetro. Anzi, spostando di pochissimo il punto di impatto mi anticipò, rubandomi il tempo, prendendo il mio ‘timing’. Mi parve immobile, eppure esercitò un’impercettibile rotazione del polso. Gli bastò per essere lui a colpire me e non io a colpire lui. Pensai: “Come si ferma un tipo del genere che non prova e teme dolore, che fa male quando colpisce e fa male anche quando viene colpito?”.

Anand ci mostrò come massaggiarci a vicenda per far riassorbire prima gli ematomi. Anche quello aveva il suo verso e la sua angolazione. Il massaggio fu quasi più doloroso del dolore in sè.

Quando venne da me e mi cinse il braccio iniziando a stringere e risalire ruotando i polsi e portandosi dietro metà dei miei peli del braccio disse: "Ci diamo dolore, ma ci curiamo anche a vicenda".

Ero ancora assorto in quei colpi rimbalzati su Walter quando Alberto chiese a Walter di mostrare alcune tecniche da terra.

Ci fermammo, ci disponemmo in riga e Walter si appoggiò a terra come se avesse appena conquistato la prima fila in riva al mare. Sguardo in alto, come a godersi il sole, braccia tese indietro e gambe piegate, una a terra e l’altra a ginocchio sollevato.
Anand avrebbe interpretato il ragazzo geloso e incazzato della tipa alla quale Walter aveva fatto un fischio e commentato lo splendido culo.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on May 30, 2011, 12:25:48 pm
 PARTE XIII - Non Meno di Tre

Una breve spiegazione: “Non ci capita spesso di essere in queste posizioni. Il Pukulan è un’arte da combattimento in piedi. Molti stili di Silat adottano posizioni basse o preferiscono andare al suolo e portarvi l’avversario a causa del terreno. Se si è nella giungla e il terreno non è stabile, se è fangoso, se a causa della stagione delle piogge è piovuto eccessivamente e ogni passo potrebbe essere motivo di instabilità, allora il praticante di Silat va giù a combattere a terra”. Avevo sentito e letto a riguardo. Molte arti marziali non andrebbero isolate dal loro contesto. Come dicevo precedentemente, la base storica e culturale è parte integrante di un’arte. I movimenti lo sono. Quegli stessi movimenti hanno una storia, passata da padre in figlio, da maestro ad allievo. Le arti marziali hanno una struttura sociale e isolare le tecniche dalla cultura renderebbe ciò che andrebbe presa come una completa cultura guerriera in semplice ginnastica etnica.

Il contesto 'suolo' nelle arti marziali è fonte di polemiche da alcuni anni. Ciò è dovuto principalmente alla diffusione avvenuta a livello mondiale di un’arte altamente specializzata nel combattimento al suolo come il Jiu-Jitsu Brasiliano. L’errore più comune è pensare che un’arte specializzata nel combattimento al suolo possa eccellere solo in quello. In realtà un’arte che focalizza il combattimento principalmente a terra è costretta a raffinare i propri mezzi anche per portare l’avversario a terra. Persone che allenano il proprio repertorio in modo specifico per portare l’avversario a terra saranno persone allenate a capire come non andarvi. L’occhio sarà allenato a vedere tutti quei segnali utili a capire come andare a terra o come evitare l’atterramento. Le competizioni di Mixed Martial Arts, in un momento in cui il combattimento al suolo non era conosciuto dalla stragrande maggioranza degli artisti marziali, hanno evidenziato se non altro a livello competitivo l’importanza del saper combattere al suolo. Dopo alcuni anni il gap tra gli strikers (coloro specializzati nelle arti da percussione) e i grapplers (coloro specializzati nelle arti da lotta in piedi o al suolo) è stato eliminato e tutt’ora vige un certo equilibrio tra le due specialità, al punto che tutti gli atleti preferiscono integrare l’uno con l’altro ammettendo l’importanza dell’essere se non completi, almeno versatili.

Ma il problema è sorto altrove. Dove gli sport da combattimento, a causa della loro specializzazione e regolamentazione, come la Boxe, la Boxe Tailandese, la Kick Boxing o il Karate sportivo, non hanno sentito la necessità di integrare nel repertorio il combattimento al suolo, le arti marziali ‘pure’ da difesa che per anni hanno proclamato una certa superiorità sugli sport da combattimento si sono sentite spodestate dalla loro virtuale posizione di arti letali. Alcune di queste si sono inventate programmi di lotta a terra, basati su concetti errati e senza alcuna solida base di conoscenza di lotta al suolo, per attirare persone e darsi un’aria di completezza.

Quando dunque sento parlare di lotta a terra da parte di un’arte marziale non sportiva, affronto l’argomento con una certa circospezione e cautela.

In alcuni seminari dell’associazione avevo avuto modo di vedere e provare delle tecniche di uno stile di Pencak Silat originario dell’isola di Sumatra: l’Harimau, che nella lingua locale significa ‘tigre’. Movimenti eleganti e caratteristici, ma che di certo non mi avevano colpito per efficacia, realismo e facilità di applicazione.

Walter non stava per mostrarci come portare l’avversario a terra ne tantomeno come da una posizione in piedi si dovesse andare giù per combattere, stava per illustrarci alcune possibilità di difesa da terra su aggressore che ci carica da posizione eretta.

Era in una posizione estremamente comoda e rilassata, con un braccio appoggiato sul ginocchio della gamba piegata, l’altro braccio a fare da pilastro a terra. Una tipica posizione da spiaggia.

Anand si avvicinò rapidamente a lui per colpirlo e mentre compiva il primo passo verso Walter, una gamba schizzò verso la caviglia di Anand esattamente un attimo prima che il piede toccasse terra. Il tallone di Walter colpì la caviglia di Anand così violentemente che Anand, non trovando più il supporto della gamba e per scaricare il forte impatto, compì una mezza capriola in avanti. Non aveva assecondato la tecnica di Walter, l’aveva subita nel vero senso della parola. Walter non stava dimostrando una tecnica, l’aveva applicata al 100%. Si rialzò toccandosi la tibia col suo sorriso beffardo e di sfida e ripeté l’attacco altre due volte. Stessi risultati, solo piroette leggermente diverse, Walter lo colpì dall’interno spazzando o tirando la gamba dall’esterno. In tutti i casi, Anand era finito al suolo e Walter usando le braccia si era spostato rapidamente verso Anand che non aveva fatto a tempo a riprendersi dal capitombolo che si era ritrovato Walter che era risalito strusciando i malleoli e le tibie nelle cosce di Anand provocandogli dolore aggiuntivo ed era lì pronto con i capelli di Anand in mano e il gomito carico per il nuovo impatto.

Non solo il forte colpo subito da Anand mi aveva impressionato, ma anche quel rapido spostamento di Walter verso Anand. Aveva utilizzato entrambe le braccia per lanciarsi e usato una gamba a fare da supporto a terra per assecondare quel movimento e con un colpo di reni aveva spostato l’intero peso sul proprio assistente, causandogli ancora dolore e preparando il colpo finale di gomito dietro alla nuca o in pieno viso. Tutto nel breve tempo in cui Anand, appena caduto, rialzava la testa e si riaccorgeva di ciò che stesse accadendo.

Mostrò poi alcune varianti dicendo: “l’avversario è costretto ad avvicinarsi per venire verso di voi, ma lui ha solo due basi a terra, i piedi, mentre voi già a terra ne avete almeno quattro e se le vostre gambe sono rivolte verso l’aggressore avete la possibilità di colpire le sue gambe, i suoi pilastri, e allo stesso tempo avere il vantaggio di tenere la vostra testa lontana dai suoi colpi. Osservate bene e prendete il tempo. Colpite nel momento in cui sta per poggiare il piede a terra e il suo peso è avanti. A quel punto toglietegli la base. Anche in questo caso decidete voi dove indirizzarlo. Con il primo esempio l’ho fatto venire verso di me, il secondo, spazzandolo dall’interno l’ho spostato su un lato, il terzo sull’altro. In un modo o nell’altro lui andrà a coprire determinate linee. Sfrutto lo stesso diagramma per muovermi anche a terra. E nonostante io non sia in posizione eretta, continuo a pensare in termini di posizione/spostamento ‘Tre’, ‘Quattro’ o ‘Cinque’. Quindi, colpite i suoi pilastri, allontanateglieli e cadrà o scoprirà i testicoli o vi darà come bersaglio l’altra gamba. Mentre cade colpite ancora, appena a terra colpite ancora. Tutto ciò continuando a spostarvi verso di lui. Noi nel Pukulan usiamo la regola del ‘non meno di tre’. Ossia, quando decidete di colpire, in piedi o a terra, colpite l’avversario minimo tre volte”.

Provammo goffamente a ripetere quelle applicazioni. I tre olandesi girarono tra i partecipanti spiegando minuziosamente i dettagli, le varianti e le possibili finalizzazioni delle combinazioni.

Fu spettacolare vederlo muoversi a terra con quelle sue leve lunghe in modo così inaspettatamente rapido e agile, era nell’avversario prima che la vittima fosse a terra. Provò le tecniche anche su alcuni di noi. Si entrava nel suo raggio di azione e scattava fuori una gamba a togliere l’appoggio. Decisa e dura, nella tibia, nella caviglia, nel polpaccio o direttamente alla base del piede. Toglieva l’appoggio ed era impossibile non esserne sbilanciati, prima di accorgersi che non c’era più una gamba dove credevamo ci fosse stata, aveva già colpita l’altra rimasta d’appoggio e lui si era talmente tanto avvicinato da entrare persino con i gomiti nel menisco o nella rotula più vicina. Frustava con dita o nocche nei testicoli, artigliava dolorosamente l’interno con le dita delle mani e, incredibilmente anche con quelle dei piedi, stringendo la pelle quel tanto che bastasse a distrarre per il dolore mentre risaliva colpendo fino al viso dell’assistente di turno. Andava giù e si rialzava con una rapidità fuori dal comune. Mi resi conto che per muoversi in quel modo era necessario davvero tanto allenamento. Riusciva poi a tenere la sua testa ben lontana dai possibili colpi. Alcune combinazioni le attuò con una diversa strategia, non colpendo solo una gamba, ma contemporaneamente due. Allargandole in direzioni opposte. Vi riusciva lanciandosi tra entrambe le gambe dell’avversario e spazzandole nello stesso istante usando leve contrapposte, con il busto eretto riusciva poi a dare il colpo di grazia con un terzo colpo all’inguine o al ginocchio con dita, nocche o gomiti oppure colpendo ancora con un calcio. Non gli importava della eventualità di impattare osso su osso, lui era condizionato per farlo. Mi chiesi quanti anni e quanto tempo fossero necessari per raggiungere un tale grado di determinazione nel colpire, un tale grado di precisione a seguire quelle linee immaginarie che lui vedeva, quanto tempo per condizionarsi le ossa a quel livello e quanto tempo per superare completamente la paura del dolore o il dolore stesso.

Gli chiesi se il combattimento a terra fosse parte integrante di ciò che praticava e mi rispose che il Pukulan è principalmente un’Arte contundente da posizione eretta, ma che il suo maestro aveva studiato anche tecniche di ‘Minangkabau’.

Capii poco di quella risposta. Per me Minangkabau era un modello artigianale di Kerambit, una lama ricurva da combattimento della cultura indonesiana di probabile provenienza araba che porta sul manico un foro per infilare un dito. Ne avevo alcune e una in particolare aveva quel nome: ‘Modello Minangkabau’. Conosciuta anche con il nome di Kuku Macan (artiglio di tigre), Kuku Bima (artiglio di Bima). Alcuni erroneamente la chiamano la ‘lama di Java’. Ma è invece tipica dell’isola di Sumatra. In particolare, quel modello che possedevo prendeva il nome dalla etnia Minangkabau. Letteralmente quello del ‘bufalo vittorioso’ (da Minang: vittorioso; e Kabau: bufalo) è un popolo che vive sulle highlands della parte occidentale dell’isola di Sumatra. Deve il suo nome a un’antica leggenda di una disputa territoriale tra un principe locale e l’etnia Minangkabau. Uno scontro tra due bufali. Uno enorme e potente a rappresentare il principe e uno piccolo, bisognoso di latte materno e con lame affilate al posto delle corna a rappresentare il popolo Minangkabau. Si narra che il grande bufalo avesse lasciato quello piccolo avvicinarsi non considerandolo un pericolo e cercando un avversario alla sua altezza. A sua volta, il piccolo, scambiando quello più grande per la madre, vi fosse andato sotto per prendervi il latte e alzando lo sguardo in cerca di una mammella avesse sventrato il bufalo del principe. L’etnia Minankabau ha prodotto alcuni tra i più pittoreschi e affascinanti stili di Silat che vanno sotto il nome di ‘Silak Tuo’, tra questi l’Harimau (tigre), lo Sterlak, il Seni Silat e altri dal nome meno conosciuto.

I movimenti risentono della conformazione territoriale, delle caratteristiche tipiche della zona. Movimenti bassi, eleganti, colpi da posizioni accovacciati che richiedono molta pratica e allenamento. Quasi a pagare tributo alle caratteristiche fisiche e all’astuzia del piccolo bufalo vittorioso.

Al momento non sapevo le differenza tra arti di Java e arti di Sumatra.

Tra i vari stili di Silat indonesiano avevo sentito nominare solo alcuni nomi più famosi a livello mondiale. Famosi relativamente, poiché conosciuti solo dai praticanti di arti marziali indonesiane, che in confronto alle arti marziali giapponesi o cinesi sono solo una piccolissima parte.

Vedere combattere a terra con quella brutalità e rapidità, quei calci così decisi nelle articolazioni e quella capacità di rialzarsi a sovrastare l’avversario così velocemente, mi spinse a riconsiderare anche il mio punto di vista su alcuni stili di Silat, a patto che tutto, logicamente, venisse allenato nel giusto modo e con la giusta intensità. In definitiva non conta tanto cosa pratichi o cosa fai, ma conta piuttosto come lo fai, con che frequenza, con che realismo, quanto impegno e dedizione, in che condizioni mentali riesci a immergerti mentre ti alleni. Tutto ciò era quello che mi aveva impressionato in quei due giorni. Tutto, ogni forma di combattimento, poteva essere allenata così. Il bisogno di commercializzare gli stili, il vendere le arti da combattimento impacchettate e preconfezionate per un grande pubblico sminuiva e castrava il motivo per cui erano nate. Capii più profondamente quanto alcune arti, per il modo in cui devono necessariamente essere allenate, non fossero per tutti. Se non si vuole fare business, se non si cercano guadagni, se non si vuole diffondere alle masse, quello era il modo reale per allenarsi. Quella era un’arte marziale come doveva essere. E finalmente l’avevo vista. Ne ero stato testimone.

Il seminario si chiuse con alcuni Jurus di Olivier e Anand degli stili Cimande, Sebandar, una forma eseguita con Golok (machete indonesiano) da parte di Anand. Splendidi movimenti ma che mi sembravano anni luce dalla efficacia della semplicità del Pukulan.

Ma non mi interessava chiudere deconcentrandomi dal motivo del mio viaggio e della mia presenza lì. Volevo che mi rimanessero fotografati i movimenti del Pukulan in mente. Null’altro. Non volevo registrare null’altro.

Le sei ore della domenica passarono in fretta.

Dopo il saluto e i ringraziamenti da parte degli olandesi e di Alberto, le uniche immagini che mi rimasero della fine di quei due ultimi giorni furono Walter che parlava amichevolmente fuori dal palazzetto fumandosi una sigaretta in compagnia di alcuni partecipanti e il viso di Simone, il mio compagno di allenamenti di quei due giorni.

Dedico a lui i miei ricordi di quelle dodici ore di allenamento.

 

Una lunga malattia ha portato via uno dei ragazzi migliori conosciuti nel mondo delle arti marziali.

Un puro! Uno pulito!

Simpatico, disponibile, allegro.

Un pregevole atleta: duro, tecnico, gran combattente.

Ricordo ancora un suo pugno stampatosi sulla mia fronte...

Quel giorno lo vidi per l’ultima volta.

Non mi mancherà fisicamente. Le occasioni di incontro non furono così numerose.

Ma mi mancherà sapere che non è lì, su qualche Tatami o ring, a tirare pesante pur senza cattiveria con qualche malcapitato di turno......

Ciao Simone, riposa in pace…!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: The Spartan on May 30, 2011, 12:43:26 pm
Mi unisco al ricordo di Simone, conosciuto poco più che bambino e con il quale ho invece diviso tante ore di allenamento e agonismo, fino al mio ultimo incontro proprio con lui.
Marzialista come pochi, andato via in silenzio e senza il tributo che avrebbe meritato.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: GiBi on June 15, 2011, 11:27:20 am
In attesa che Alfarano posti ancora il suo diario  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on June 15, 2011, 15:50:06 pm
PARTE XIV - DEJA VU


“Ti rispondo quello che ho già detto ad altri: non avete capito che quello che vi abbiamo fatto è stato un regalo”.

Ero perplesso.
Parlando e commentando il seminario, Alberto al telefono fu così che rispose alla mia domanda: “sarebbe possibile avere il video del seminario?”.

Un regalo? Ok, gli olandesi non ci hanno guadagnato, sono state pagate loro le spese, ma non mi sembrava aver ricevuto regali. Avevo visto una magnifica torta, l’avevo saggiata e poi era come se mi fosse stato detto: ok … piaciuta? Bene, perché non la mangerai mai più.

Continuai le mie lezioni in palestra. Parlai ai ragazzi descrivendo la mia esperienza a Milano. Comunicai loro i miei intenti: intensificare gli allenamenti, renderli più duri. Dopo aver visto quel modo di intendere le arti marziali non era più possibile continuare come prima.

Vedere e ‘sentire’ il Pukulan era stato per me un giro di boa.

Allenavo e insegnavo il Kali, il Jeet Kune Do, ripetevo tecniche e prendevo lezioni private di Brazilian Jiu-Jitsu, cercavo di approfondire le mie conoscenze marziali con la Muay Thai e con la sua versione tradizionale Mae Mai. Ma la mia testa era altrove. Facevo tutto ciò che ritenevo efficace, ma il mio cuore marziale era rimasto lì, in quella camera d’albergo, su quel campo di basket. Era in quello spirito di amicizia e allenamento fine a se stesso, quella fratellanza lontana da fini commerciali, quel sordo doloroso contatto. La saggezza dell’osso.

Siti, e-mail, recapiti, indirizzi. Degli olandesi in rete non vi era nulla.
Cercai, se non altro per testimoniare loro la mia stima e soddisfazione, anche a mesi di distanza.
Ne erano passati circa sei.

Sei mesi in cui periodicamente cercavo surfando nella rete.
Iniziai a documentarmi sul Silat, a leggere, scaricare articoli, stampandoli e leggendoli nel tempo libero.
Le uniche fonti reperibili sul Pukulan erano quelle americane. Mi documentai un po’ su cosa si facesse oltreoceano. Visionai video. Ma nulla era lontanamente simile a ciò che avevo visto.

Mi sentivo confuso. Lo chiamavano Pukulan, ma allora perché facevano cose così diverse? Calci alti, tipici di altre arti marziali, leve articolari. In realtà a Milano di leve articolari non ne avevo vista neanche una. Non riuscivo a trovare un riscontro tra il Pukulan visto in rete e il Pukulan visto dal vivo. Spazzate su spazzate e neanche una entrata reale come ne avevo viste e sentite di persona.

Era il solito Silat che mi aveva lasciato sempre tanto scettico.

Vidi un Silat diverso dagli altri in alcuni video di praticanti inglesi. Nulla di eclatante, ma bei movimenti. Preparati fisicamente, se non altro. La gran parte dei video di Silat in rete mostra persone lontane da una forma fisica decente, appesantiti e che si muovono di conseguenza, lenti, goffi, colpi preordinati, sequenza fasulle. Roba già vista in tante altre arti marziali. Solo eseguite peggio.

L’intensificarsi degli allenamenti aveva già dato i suoi frutti.
Alcuni allievi erano spariti. Altri ne avevano invece tratto nuovi stimoli.

Le mie ricerche nel campo delle Arti Marziali Indonesiane mi davano risultati contrastanti. Un mondo affascinante, misterioso, con vene esoteriche.
Dall’altro lato, i video: personaggi goffi, in sovrappeso, con Sarong improvvisati indossati alla maniera sundanese (Java Occidentale) e con in testa l’Ikat (foulard) indossato alla maniera Minangkabau (Sumatra), in pantaloni di felpa sfoggianti logo anche a coprire lo sfintere e calzerotti bianchi. Gente che palesemente aveva problemi a mantenere posizioni salde, che a terra era agile come ricci di mare. Video di Silat eseguiti con bastoni del Kali e spostamenti del Jeet Kune Do.

Capii che per apprezzare quel mondo dovevo immergermi completamente nella cultura del luogo, eviscerandone video, siti, video-corsi a distanza, video-corsi istruttori, nomi di arti il cui nome era marchio registrato, diplomi, magliette con stemmi degni delle griffe dei migliori stilisti. Dovevo dimenticare quei curricula gonfiati di nomi di venti, trenta arti marziali di cui quei pittoreschi personaggi, in gran parte americani, si dichiaravano Maestri.

E pensavo al Pukulan. Persone così preparate e dure all’impatto, che si allenavano da decenni che avevano detto: “noi ci riteniamo tutti principianti. Nel Pukulan non ci sono maestri, solo praticanti”.
Due pianeti lontani e inconciliabili.

Mi ritornò alla mente di quando un amico tanti anni prima, a una mostra dell’antiquariato, aveva comprato un Kris per il mio compleanno.
Per me all’epoca era solo un’arma impugnata talvolta da Sandokan. Poco mi importò quando, dopo averlo conservato in uno scatolone pieno di altre armi orientali (giapponesi e cinesi), riprendendolo, vi trovai il ‘batang’ (fodero) di legno rotto. I foderi dei kris hanno una sezione in alto, in prossimità del manico, a forma di vascello. Questa è detta ‘sampir’ e accompagna racchiudendo una parte allungata della lama detta ‘ganja’. Il ‘sampir’ del mio kris era spaccato in due. Ma, d’altronde, quella curiosa forma del fodero era in assoluto la parte che meno mi era piaciuta del regalo.

Ai tempi del regalo collezionavo armi dell’estremo oriente, giapponesi e cinesi. Non ero a conoscenza ne del Pencak Silat indonesiano ne del Kali filippino o del relativo uso e utilizzo di quelle particolari lame del Sud-est Asiatico.

Un Deja Vu. A questo pensai.
Chi si sarebbe immaginato che il mio viaggio nel mondo delle arti marziali mi portasse alla fine lì? O almeno in quella direzione?
Tolsi la polvere dal mio kris e lo misi in bella mostra, senza fodero, appoggiato su un mobile.
Per me era solo tornato a far parte di oggetto degno della mia collezione.

Lo adagiai accanto al kris filippino, di ben altre dimensioni.
Già da anni la mia collezione di armi orientali si era spostata geograficamente. Bolo, Barong, Golok, Kerambit e altre armi del Sud-Est Asiatico avevano sostituito Shuriken, Gama, Tonfa, Nunchaku, Jian e Tao.

Quasi come una metafora di ciò che per me erano le arti marziali a quel tempo, collezionavo armi orientali come collezionavo tecniche di vari stili.
La base, la passione principale era il Kali filippino. Ma il male tipico del Jeet Kune Do, non per l’arte in sé quanto per la mentalità con la quale viene diffuso, ossia il collezionismo, ancora faceva sentire la sua influenza sulla mia pratica. Mescolavo. Il Pukulan, per quanto valido ed efficace e se avessi avuto la possibilità di praticarlo, sarebbe stato un ulteriore o forse il principale tassello del mosaico della mia pratica.

Come se fossi rimasto folgorato da una splendida fanciulla vista solo una volta per strada, non avendo avuto il coraggio o la possibilità di approfondire la conoscenza e una volta sparita allo sguardo sentire l’amaro in bocca per la sensazione di non poter più vedere quel viso, quei lineamenti e quei suoi occhi, quell’arte indonesiana residente in Olanda svaniva nel ricordo lasciandomi l’amaro in bocca dell’accontentarmi a ciò che facevo e praticavo.

La mia unica possibilità di tenere vivo il ricordo di quei giorni era intensificare la mia pratica, cambiare il mio insegnamento, trasmettere le cose in modo nuovo.
Provo vergogna se ripenso a come descrissi tecnicamente il Pukulan ai ragazzi che si allenavano con me, ai movimenti e alle tecniche che mostrai loro. Ciò che pensavo di aver capito e colto in quelle poche ore.
Ma la ricerca non era finita. E mentre continuavo a cercare tracce degli olandesi in rete continuavo a documentarmi sulle arti marziali indonesiane e il loro mondo.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: GiBi on June 21, 2011, 09:25:33 am
Toc toc...Alfaaaa  :)

Quì attendiamo eh  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Takuanzen on June 24, 2011, 10:22:30 am

Walter spiegò: “Quante persone sono allenate a entrare così e sopportare tali impatti? Noi lo sappiamo, lo accettiamo. Sappiamo che se il dolore non viene gestito e usato assorbe la mente. Non è possibile pensare ad altro. Se ne viene fagocitati. Ma se sono allenato lo gestisco, lo uso, lo sfrutto, ne prendo forza, mi carica. Non mi blocca, anzi, mi spinge a dare ancora di più. Per questo è necessario allenarsi con realismo. E si arriva a un punto in cui sai che non puoi ricevere più dolore di quanto tu non sia già abituato a gestire. Un punto in cui il dolore ti insegna. E’ il tuo alleato. Non lo temi più. Ma a tutto ciò si arriva in modo progressivo, o se ne ricevono danni”.


Sottolinei bene che bisogna arrivare ad un tale livello di "confidenza" col dolore progressivamente e non bisogna improvvisare. Immagino che sia fondamentale in questo caso il ruolo della mente e dell'intenzione...

Ma la mia testa era altrove. Facevo tutto ciò che ritenevo efficace, ma il mio cuore marziale era rimasto lì, in quella camera d’albergo, su quel campo di basket. Era in quello spirito di amicizia e allenamento fine a se stesso, quella fratellanza lontana da fini commerciali, quel sordo doloroso contatto. La saggezza dell’osso.


Mi piace tantissimo questo passaggio. L'espressione "saggezza dell'osso" è stupenda: è tua o è un termine/concetto usato proprio dai maestri di Pukulan?

Quasi come una metafora di ciò che per me erano le arti marziali a quel tempo, collezionavo armi orientali come collezionavo tecniche di vari stili.
La base, la passione principale era il Kali filippino. Ma il male tipico del Jeet Kune Do, non per l’arte in sé quanto per la mentalità con la quale viene diffuso, ossia il collezionismo, ancora faceva sentire la sua influenza sulla mia pratica. Mescolavo. Il Pukulan, per quanto valido ed efficace e se avessi avuto la possibilità di praticarlo, sarebbe stato un ulteriore o forse il principale tassello del mosaico della mia pratica.


Il collezionismo non è un male tipico purtroppo solo del JKD, ma una mentalità tipica anche di molti praticanti di arti marziali cinesi (parlo per quello che conosco), che sommano stili, forme e tecniche eterogenee, ritrovandosi alla fine con un qualcosa di insostanziale e privo di contenuto. Fra gli occidentali è molto presente tale atteggiamento, tuttavia anche molti orientali lo fanno, spesso per motivi principalmente commerciali... :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on June 26, 2011, 10:41:43 am
L'espressione "saggezza dell'osso" è stupenda: è tua o è un termine/concetto usato proprio dai maestri di Pukulan?

espressione mia.
Quelle di Walter o degli anziani le metto tra virgolette o è specificato.
Non avevo visto i tuoi quesiti, ti rispondo presto. Scusa il ritardo..  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Samurai77 on June 26, 2011, 11:48:33 am
veramente affascinante...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 02, 2011, 10:11:42 am
......... e si riprende

PARTE XV - Avatar

Il logo apparve sullo schermo del computer inaspettato. Solo un’icona. Un avatar.
Piccolo poche decine di pixel. La mia retina mi rimandò quell’immagine del logo sulla divisa degli olandesi.
Periodicamente avevo cercato tutte le parole chiave possibili in rete: nomi, cognomi, termini.
Nome e cognome di Anand mi avevano portato ad una mail. La mail ad un account di un utente che scriveva in un forum olandese sul Pencak Silat. Uno strano nickname. Una piccola traccia.
Era tutto scritto in olandese. Discussioni, interfaccia, ma i forum si somigliano un po’ tutti e non fu difficile seguire le discussioni. Non capivo il significato, ma mi interessavano le parole chiave. Volevo che apparisse quella termine: Pukulan. O Pecutan o Madura. Nulla. I nomi che venivano menzionati erano altri.
Lessi molte pagine, doveva esserci un collegamento tra quella mail e il nome di Anand e la discussione.
Utilizzai un sito di traduzioni automatiche per aiutarmi. Convertii i comandi principali dell’interfaccia di quel forum dall’olandese all’inglese per navigare più agevolmente e visualizzare le pagine del profilo degli utenti, ma richiedeva l’iscrizione e non avevo il tempo in quel momento.
Rimandai decidendo di limitarmi a cercare ancora tracce di ..... Anand. Un nome. Una firma, alla fine di un lungo post.
Anand, si firmava un utente. Quante persone potevano esserci con quel nome. Mi illudevo o avevo un indizio?
Appena ebbi la possibilità e un po’ di tempo libero tradussi diversi comandi di quell’interfaccia per capire come seguire i vari passi per l’iscrizione a quel forum.
Fatto!
Perfetto. Adesso mi toccava cercare il comando ‘mostra i messaggi di questo utente’. Una volta superato questo passo iniziai a visualizzare le discussioni in cui quell’utente che si firmava Anand fosse intervenuto.
Pagine e pagine di chiacchiere sperando di leggere quel nome di quell’Arte che mi spingeva a questo.
In una discussione nulla.
Ne aprii un’altra. Quell’utente scriveva poco e interveniva meno. Decine di pagine di discussioni per leggere il suo nome appena un paio di volte.
Nulla. Un’altra, poi un’altra e un’altra ancora.
Pagine nere in cui le lettere scritte in colore chiaro, il bianco, scorrevano su per lo schermo una dopo l’altra. Una pessima scelta cromatica per gli occhi. Poche righe vanno bene. Il nero o i colori scuri rendono bene per alcuni siti, ma per le lunghe letture sono distruttivi e gli occhi non si condizionano come le ossa.
Tentai anche una ricerca per parole chiave: Pukulan, logicamente. Ma spesso appariva in liste o a sproposito.
Anche in quel caso, mi aiutai col traduttore automatico olandese inglese per tradurre interi brani o discussioni sperando si parlasse di Pukulan.
Tornai ai messaggi scritti da quell’utente.
Certo, l’immaginare un tempo persone che cercavano sperdute arti attraversando la giungla per poi pregare il maestro che si rifiutava di accettarli come allievi e restarvi accampati ai pericoli in attesa per notti e giorni, mi sembrava assai più romantico, pittoresco e affascinante. Ma quelle erano le mie possibilità. Due secoli prima si navigava per mari e terre sconosciute per giungere alla conoscenza. Ora si faceva tutto con le chiappe incollate alla poltroncina a rotelle di una scrivania sulla quale svettava appollaiato un luminoso monitor. Adesso è così che si naviga per la conoscenza.
Tra le discussioni dell’utente che si firmava Anand, ecco apparire un’altra firma.
Come quando l’immaginazione proietta nel presente le speranze trascinandole come per i capelli avanti ai nostri sensi, apparvero le lettere ‘Walter’ come firma di un utente intervenuto in una ennesima discussione sul Silat in generale. Ma ciò che mi confermava la possibilità che fosse ‘quel’
Walter era il logo che ne rappresentava l’Avatar.
Un termine diventato di uso comune per chi utilizza la rete, chi videogioca, chi frequenta blogs, forum e discussioni o social networks vari. In realtà Avatar è un termine sanscrito caro all’Induismo. Sta a significare ‘incarnazione’. Un avatar è un’incarnazione del Divino, una manifestazione corporea  di un Dio o di una Divinità.
Come Krishna lo è per Vishnu, un mucchietto di Pixel colorati rappresenta l’incarnazione digitale di una qualche persona. C’è una contraddizione di base. L’Avatar è una materializzazione di una entità incorporea, mentre nel caso di internet è il contrario: è una smaterializzazione di un essere umano nel mondo virtuale. Chi conia certi termini andrebbe aiutato a raggiungere il Nirvana a calci nel culo.
Un indizio resta un indizio. Ma due indizi formano una prova.
Un utente che si firmava Walter e utilizzava il logo del Pukulan Pecutan visto sulla giacca degli olandesi. Ebbi la certezza che si trattasse di lui. Non poteva essere altrimenti.
Era fine Luglio. Da lì a due giorni sarei partito per le vacanze estive. Se fosse stato lui e non mi avesse risposto prima di molti giorni? Avrei letto la sua probabile risposta solo a Settembre.
Mi adoprai per tradurre i comandi che mi servivano per compilare un messaggio privato:
“Caro Walter. Mi chiamo Claudio Alfarano.
Ho trovato il suo nome e il logo del Pukulan in questo forum e ho pensato potesse trattarsi della stessa persona che mesi fa ho avuto il piacere di conoscere in un seminario a Milano.
Se lei è quel Walter, volevo ancora una volta complimentarmi con lei e con i suoi compagni di allenamento per l’interessantissima  esperienza, sperando vi possano essere ulteriori occasioni future per rincontrarvi e poter rivedere e allenare la vostra bellissima Arte.
Sinceri e cordiali Saluti. Claudio Alfarano”.
Gli scrissi di pomeriggio. E la sera vi trovai:
“Salve Claudio, grazie per il commento. C’erano un po’ di persone e l’età non mi permette più di ricordare tutti i nomi. Non so se saremo di nuovo a Milano in futuro. Se verremo invitati sicuramente ci farebbe piacere tornare. Ma se ti è piaciuto il Pukulan sei il benvenuto.
Noi amiamo allenarci con chiunque.
Distinti saluti. Walter”.
Ero fuori di me per quella risposta. Il problema sarebbe stato chiedere il permesso a Alberto.
Walter mi anticipò nell’ulteriore risposta alla mia successiva mail:
“La ringrazio tantissimo per la disponibilità. Sarebbe per me un onore potermi allenare di nuovo con voi. Io ero uno dei quattro partecipanti istruttori che vennero con voi la sera in camera ad allenarsi. Foste davvero disponibili e generosi. Mai visto nulla del genere in altre arti marziali.
Se fosse possibile sarebbe per me una grande opportunità. La vostra Arte e il vostro modo di allenarla mi ha lasciato senza parole. Di nuovo i miei saluti. Claudio.”
E lui: “Caro Claudio. Per me non c’è alcun problema. Puoi venire e allenarti nella mia soffitta. Noi ci alleniamo lì. Solo bisogna avvisare Alberto. E’ un amico e per correttezza non vogliamo fare nulla alle sue spalle, dato che fai parte della sua associazione. A presto. Walter”.
Alberto! Sicuramente lo avrei avvisato. Sicuramente, conoscendolo, sarebbe stato un problema.
Decisi in un secondo: se avessi avuto la possibilità di allenare di nuovo il Pukulan e mi fossi trovato di fronte ad una scelta o un ultimatum, avrei abbandonato diplomi, associazione, corso, aggiornamenti istruttori, rappresentanze e tutto il resto, gettandomi a capofitto in quell’avventura.
Ammesso che a Walter tutto ciò potesse andar bene.
Trovarmi di fronte ad un’Arte Marziali con le maiuscole, come mai ne avevo viste prima, con gente con quella mentalità, era un’opportunità troppo ghiotta. Tutto ciò che marzialmente avessi mai potuto desiderare.
Ma da lì a poche ore sarei partito per le vacanze estive e non avrei avuto a disposizione un computer per un mese. Diamine!
Chiamai Bruno, lo informai delle novità, entusiasta gli spiegai la cosa un paio di volte per farmi capire. Come sempre, lui diede la sua disponibilità. Gli passai Log-in e password del mio account a quel forum olandese e gli diedi la possibilità di leggere lo scambio epistolare tra me e Walter.
Riscrissi a Walter, informandolo che causa partenza io non avrei più avuto la possibilità per tutto il mese di Agosto di potergli scrivere o rispondere. Gli dissi che in mia vece ci sarebbe stato il mio principale compagno di allenamenti. Presentandogli in due righe Bruno e di comportarsi con lui come se fossi io in persona.
Lo salutai, augurandogli buone vacanze. Mi rispose che quell’estate non avrebbe soggiornato in nessun luogo, essendo in cerca di lavoro. Mi augurò una buona estate e rimanemmo che ci saremmo riscritti al ritorno.
Avevo capito bene. Al momento lui era senza lavoro. E invece di sfruttare l’occasione e dare qualche lezione privata, come chiunque avrebbe fatto, mi aveva invitato gratis, senza neanche conoscermi, ospite a casa sua, per allenarmi … Che tipo!
Partii per le vacanze.
Mi tenni in continuo contatto con Bruno.
Si scrissero e si conobbero virtualmente. A sua volta l’invito fu ribadito fu esteso anche a lui. Saremmo potuti andare entrambi e saremmo stati i benvenuti a casa sua.
Il mese passò troppo lento, ma passò. Non vedevo l’ora di riprendere contatto, rileggere la corrispondenza tra lui e Bruno e chiedere il permesso a Alberto per potere andare.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: kortobrakkio on September 02, 2011, 12:35:10 pm
Bene Claudio!
Attendevo ansioso il seguito.
Racconta,racconta!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: conanramon on September 04, 2011, 22:46:07 pm
really cool.. aspettiamo il seguito
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 05, 2011, 10:38:14 am
Parte XVI - Domande.....

 
“Cosa ne capisci tu di Silat per pensare di allenarti con loro?”. La frase di Alberto mi riecheggia tra incudine e martello.

Settembre. Avevo sentito Walter al telefono. Dopo le doverose presentazioni a voce mi aveva anticipato il suo scambio di opinioni con Alberto.

Non ne era stato felice.

Capii che il suo sarebbe stato un ‘No!’.

La decisione era già presa. Se lui mi avesse creato problemi e Walter fosse stato d’accordo, avrei lasciato l’associazione. E così fu.

Alberto si offese, accusando Walter di volersi rubare un allievo, adducendo che fossi un istruttore della sua associazione, che dovessi apprendere il Silat da lui soltanto.

Walter spiegò a Alberto che non c’era alcun furto di allievo, in quanto l’allenare il Pukulan non avrebbe richiesto affiliazioni o iscrizioni. Gli disse che l’associazione ne avrebbe tratto addirittura un vantaggio, potendo vantare un istruttore più esperto nell’Arte del Silat e che io sarei rimasto lì in associazione. Ma Alberto fu deciso nel dire no, aggiungendo: “non puoi insegnargli!”.

In realtà, Walter non stava chiedendo il permesso a Alberto, lo stava avvisando per correttezza. Non capiva quell’ostinazione. Non vedeva dove fosse il problema. Di fronte all’ostinazione gli rispose: “Tu non dici a me cosa fare”.

Era la prova lampante di come in certi ambienti, il miglioramento reale non è cercato. Ciò che si cerca è la quota associativa, il corso di aggiornamento, il far portare i propri allievi ai seminari dell’associazione, quasi esclusivamente tenuti dai direttori tecnici. Se Alberto avesse accettato io sarei rimasto probabilmente nell’associazione, studiando Kali e Jkd parallelamente al Pukulan, appreso per me stesso.

A poco valsero i tentativi di Alberto di screditarmi, di parlare male di me a Walter, di offrirgli la possibilità di seminari periodici. Walter non aveva gradito i toni, i modi, la mentalità da marketing.

Io ancor meno.

Chiamai Alberto e diedi le dimissioni.

Fu allora che mi disse: “Cosa ne capisci tu di Silat per pensare di allenarti con loro?”.

“Io? Di Silat? Nulla! Ma mi ci hai fatto tu istruttore, dimmelo tu!” gli risposi.

Scoprii poi quanto ne sapesse di Pukulan anche lui. Le sue conoscenze sull’argomento si limitavano a un paio di articoli da lui scritti su una rivista di settore e ad altrettante occasioni di allenamento con gli olandesi.

Mi accusò di averlo scavalcato. Ma in realtà Alberto aveva visto Walter un paio di volte in vita sua, non lo stavo scavalcando. Walter non era il suo insegnante. Un nuovo amico mi stava invitando ad allenarmi e chi avrebbe dovuto essere interessato al mio miglioramento marziale stava tentando di screditarmi, mettermi il bastone tra le ruote e fargli cambiare idea persino offrendogli opportunità di guadagno. Questo almeno fu quello che Walter mi disse della loro telefonata.

La telefonata a Alberto fu di cortesia. Per educazione. Avevo già dato abbastanza.

Diversa fu quella a Emilio. Mi dispiacque salutarlo e non vederlo più. Pur non condividendo il suo appoggiare i comportamenti del socio. Mi disse: “mah … Sono un po’ scettico circa quanto possa durare questa tua avventura, ma ti auguro buona pratica”. Avrei rischiato anche per un solo mese di prova di Pukulan. Magari non ne avevo le capacità fisiche, la sopportazione di certi regimi di allenamento. Sapevo che sarei stato messo alla prova. Ma volevo tentare comunque.

Mi lasciai alle spalle le polemiche, le voci e la schifezza che mi lanciarono dietro gettandomi a capofitto nell’organizzazione del mio viaggio in Olanda.

La corrispondenza tra me e Walter si infittì, come anche le occasioni per parlare e chattare. Passai serate intere a parlare di Silat con lui ed era sempre disponibile e pronto a darmi qualunque spiegazione chiedessi.

Kebatinan, cultura indonesiana, stili, tecniche, caratteristiche, luoghi, nomi nuovi. Era un susseguirsi di dati che andavano ad aggiungersi alle mie conoscenze marziali e una nuova terminologia, quella indonesiana, andava a intasare il mio cervello già pieno zeppo di termini marziali stranieri cinesi, giapponesi, inglesi, spagnoli e filippini.

Mi introdusse a tutto ciò che di scritto si poteva dire sul Pukulan, alle differenze con altre forme di quest’Arte, altri approcci. A come in America, ma anche in Europa, Indonesia, il Pukulan venga interpretato diversamente e come il nome indo di quest’Arte venga distorto e abusato da molti.

Vidi video di cosiddetti esperti che avevano inventato un loro stile, definendosi non solo Guru, insegnanti, ma anche Pendakar, fondatori. Persone che senza un’idea di cosa sia il Pukulan e del perché venga chiamato in quel modo, per magnificarsi avevano usato il termine come suffisso per lo stile praticato e insegnato ma che mediocremente si agitavano avanti a ignari allievi, mostrando loro movimenti che di marziale avevano nulla.

Nomi anche illustri, di personaggi famosi che fino a pochi mesi prima erano per me dei riferimenti per quell’arte, il Silat indonesiano, che conoscevo così poco.

Quanto più un’arte è sconosciuta e poco diffusa, tanto più vi potrà essere un proliferare di individui pronti a sfruttare quest’ignoranza. Se i punti di riferimento sono pochi, poche saranno le possibilità di raffrontare e quindi distinguere il positivo dal negativo. I termini di paragone saranno impossibili.

Questo era un aspetto negativo del Pukulan.

Se in rete o in seminari si vede una forma di Pukulan che è morbida, inconsistente, arrangiata, eseguita da persone in pessime condizioni fisiche e le cui conoscenze tecniche sono assai limitate e invece il Pukulan che avevo visto e ‘sentito’ restava chiuso, per pochi, sconosciuto, allenato lontano da occhi indiscreti, allora l’idea che gli altri potevano essersi fatti doveva necessariamente essere quella disponibile a tutti. Quella che per pochi era distorta. Ma l’idea comune delle cose la da la massa. Forse era la loro idea di Pukulan a essere distorta? Come si può affermare di praticare un Pukulan diverso, quando si è pochissimi a farlo, contro centinaia o migliaia che praticano blandamente?

Se la media o la vasta maggioranza dei praticanti, ad esempio, di Karate o Kung Fu in questo secolo praticano le loro arti con l’intensità di una cozza, quale è realmente il Karate? Quale il Kung Fu?

Se esistono anche lì, e sicuramente è così, gruppi che praticano fuori dal business, in modo discreto, duro, elitario, come si può considerare ormai il loro modo di allenarsi quello vero e giusto? In base forse al loro modo di interpretare quell’arte come nei tempi antichi o ai suoi esordi avveniva?

O è solo un’interpretazione ormai?

L’interrogativo resta e resterà sempre aperto. Ciò che era la norma, ossia un’Arte allenata in modo duro, efficace, per pochi, non commerciale, diventa l’eccezione. E quale è a questo punto la vera visione di quell’Arte?

Quella dei seminari? Dei corsi per tutti? Un’arte nata per colpire in modo duro, grazie a ossa condizionate, a una mentalità resa aggressiva da intense sessioni di allenamento, per pochi, trasformata, riadattata, resa morbida per tutti, diffusa in modo da essere praticata dal massimo numero di persone possibile, è e rimane la stessa Arte?

Questi erano e sono gli interrogativi che vengono da porsi.

Eppure è il sogno di tutti i marzialisti trovare un’Arte così. E’ il corrispettivo del vedere un ufo, un fantasma per altri. Ma poi, una volta scoperto che c’è? Non poter rendere nota quell’arte, tenerla per sé, non diffonderla, non poterla mostrare per timore che altri ne possano cogliere pochi movimenti riadattandoli e distorcendoli e a loro volta aprire corsi con quel nome, cose che in effetti accadono davvero, non è frustrante? Come è possibile far finta di nulla, volgere lo sguardo altrove, lasciare che quello scempio avvenga?

E chi ha fatto della propria Arte un mestiere? Dovrà necessariamente trovare i modi per guadagnare e viverci. Che interesse avrebbe a praticare un’Arte per pochi? Non divulgabile alle masse? Che interesse ha a rendere nota un’Arte allenata così ‘old fashion’? Che interesse ha ad ammettere una differenza di questo genere avanti ai propri allievi? Il suo modo blando di praticare ne verrebbe evidenziato. Dall’alto del proprio nome famoso e della propria posizione tenterebbe di screditare quell’Arte e i suoi praticanti, di tacciarli di fanatismo. Lui e i suoi seguaci li definirebbero ‘setta’, illusi o in tutti i modi pur di non vedere screditata la propria pratica, il proprio lavoro.

Queste domande mi ricordavano quando capita di pulirsi gli occhiali da sole o da vista o lo schermo di un computer o il parabrezza della propria auto.

Con il tempo si accumula polvere, impronte, piccole macchie. Ma il modo lento progressivo in cui avviene non ci da la possibilità di accorgercene facilmente. Tutto sembra normale. Pigrizia, capacità di adattamento ci fanno abituare a tutto. Solo decidendoci di sciacquare, pulire, passare un panno sulla superficie ci dà la possibilità di vedere di nuovo chiaro. Di vedere le cose come sarebbero dovute essere. E allora con stupore ci rendiamo conto che quanto visto e osservato era offuscato da impurità. Che ci siamo persi un modo nitido di vedere le cose e poterle osservare con una qualità sicuramente più vicina a come realmente dovevano essere.

Mentre i dialoghi con Walter su Silat, Pukulan e differenti approcci continuavano, decidemmo la data del mio viaggio in Olanda. 20 Novembre 2005.

I toni con lui erano molto amichevoli, non si poneva in alcun modo come un esperto o un maestro. Mi dava spiegazioni senza ostentare conoscenza e le domande sulle arti marziali si alternavano a quelle personali.

Walter mi stava studiando. Cercava di capire che intenzioni avessi. Aveva deciso di fidarsi di me, ma restava in attesa. Voleva capire il perché un tizio che insegnava arti marziali, che viveva a migliaia di chilometri di distanza volesse allenare un’Arte con la quale non potesse guadagnarci nulla. Abbandonando la sicurezza di un’associazione che gli offriva assicurazione infortuni, affiliazione, pubblicità diretta o indiretta, un programma e una facilità di studio sicuramente maggiore di quella che poteva offrirmi lui da tanto distante e solo periodicamente.

Io e Bruno saremmo andati assieme per circa tre o quattro giorni. Saremmo stati ospiti a casa sua. Non sapevamo che per l’occasione annunciò il nostro arrivo a tutti i ragazzi che si allenavano con lui, chiedendo loro di tenersi liberi in quei giorni e a sua volta chiedendo i giorni liberi e non pagati dal nuovo lavoro che nel frattempo aveva trovato.

Ci sarebbero stati Anand, Olivier, saremmo insomma stati presentati al suo gruppo di allenamento olandese.

Eravamo felicissimi anche solo per quella ospitalità. Incerti solo se andare fin lì in macchina o in aereo, chiesi a Bruno di tardare questa scelta per un problema di salute sorto in famiglia, non avendo comunque bisogno di prenotare il volo nel caso avessimo optato per le quattro ruote.

I risultati di certi esami medici richiesero il ripetere le analisi e la preoccupazione delle incerte condizioni di salute di un membro della mia famiglia mi spinsero a tardare la conferma della nostra presenza. A pochi giorni dalla data scrissi a Walter che non mi sarebbe stato possibile andare per problemi di famiglia. Ma non ebbi alcuna risposta. Ugualmente avvenne alla mia mail successiva.

La risposta di Walter, entrambe le volte, fu il silenzio assoluto.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: conanramon on September 05, 2011, 22:04:35 pm
aspettiamo il XVII !!!!! anche se c'è sciopero generale speriamo arrivi domani :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 06, 2011, 13:40:24 pm
Parte XVII - It's your Party!

 
Gli riscrissi dopo alcuni giorni, pensando potesse essere fuori o non avesse acceso il pc e controllato la posta.

Nulla!

Iniziai a pensare che non avesse gradito il fatto che non fossi andato in Olanda. Ma come avrei potuto? Fortunatamente le analisi mediche diedero risultati negativi e con maggior leggerezza d’animo mi accinsi a scrivere a Anand.

Gli porsi i miei saluti e gli spiegai l’accaduto chiedendo di Walter. La risposta giunse a breve.

Anand mi confermò l’amarezza di Walter nei miei confronti. Era molto deluso da me. Per come mi ero comportato e per il mio avviso tardivo.

Mi informò che per l’occasione Walter aveva convocato amici per darci il benvenuto, per permetterci di allenarci con loro, aveva preparato casa per accoglierci, i letti pronti e a disposizione e che lui avesse richiesto giorni di ferie non pagati per essere a nostra disposizione ventiquattro ore su ventiquattro per tutto il periodo di permanenza da lui.

Ero naturalmente mortificato, sia per il fatto in sé, sia per le parole scelte da Anand per commentare la mia assenza. Allo stesso tempo sapevo che non avrei potuto fare altrimenti. Ero profondamente preoccupato per le condizioni fisiche del mio familiare, che tra l’altro sarebbe dovuto venire con me in Olanda. Tutto era accaduto a pochi giorni dal viaggio e non avrei potuto fare altrimenti.

Chiesi di nuovo scusa a Walter, spiegai di nuovo la situazione e senza approfondire aggiunsi che si fosse risolta e attesi la sua risposta.

Dopo alcuni giorni ebbi la risposta.

Walter rincarò la dose. Non so se non conoscendomi non mi aveva creduto, pensando fosse una scusa, oppure se a prescindere dalle cause, ciò che lui non aveva gradito fossero i modi, i tempi o chissà cos’altro. Non lo conoscevo bene da poter capire le ragioni della sua chiusura totale.

La missiva elettronica terminava con una frase che mi colpì molto: “la fiducia che ho in te è adesso pari a ZERO!”.

Mi dispiacque molto. Mi aveva colto su una parte sensibile. Bugie e bugiardi sono sempre da me stati visti in modo molto negativo e essere accomunato a loro mi feriva profondamente.

Decisi di dargli un’ultima risposta. Di essere gentile, grato per l’opportunità offertami, ma di fargli percepire tutto il mio risentimento per quanto scrittomi. Non scesi nei particolari dei problemi fisici del mio familiare. Non era il caso. Era una questione abbastanza delicata. Doveva bastargli sapere dei problemi sorti in seno alla mia famiglia e comprendermi. Se non vi fosse riuscito, allora non mi sarei sentito umanamente compreso. La mia ultima lettera a Walter finì usando la sua ultima frase. Una frase che sicuramente doveva essere stata per lui la mazzata finale nei miei confronti. Il climax della sua ultima lettera. L’addio al bugiardo che secondo lui ero stato. Decisi di riprendere quella frase e girargliela contro. Doveva colpirlo quanto e più avesse colpito me nel leggerla e avesse colpito lui nello scrivermela. Dopo ulteriori ringraziamenti per la disponibilità, usai così la sua frase e conclusi: “tu dici che la fiducia che hai in me è adesso pari a ZERO. Va bene. Ma io credo che pari a ZERO sia anche la tua comprensione dei problemi di salute altrui! Distinti saluti. Claudio”.

Chiusi così. Me l’ero giocata fino in fondo. Non potevo fare altro.

Pensai a come si sarebbero diffuse rapidamente le voci dell’accaduto e di come in seno all’associazione che avevo lasciato avrebbero commentato. Il sorriso di qualcuno. Sembrava una maledizione, ma non mi pentii mai di aver lasciato l’associazione. Walter o non Walter, Pukulan o non Pukulan, avevo tentato. Se non fossi stato compreso, come la volpe e l’uva, mi sarei convinto che evidentemente non sarebbe valsa la pena. Così come umanamente Walter e i suoi compagni mi avevano profondamente colpito, altrettanto profondamente e umanamente ero rimasto colpito dalla mancanza di fiducia nei miei confronti.

Seguirono settimane di silenzio. Doveva andare così. Continuai i miei corsi con un po’ di amarezza ma con raddoppiata forza d’animo. A testa alta, sapevo di essere nel giusto, di non aver mentito.

Mi sentivo in debito e triste per Bruno. Lui non c'entrava. Doveva venire con me e a causa di alcuni imprevisti tutto era scoppiato come una bolla di sapone.

Lui affrontò l’episodio con la sua solita flemma. Non mi fece pesare mai nulla. Apprezzai molto.

Dopo circa due mesi dal mancato viaggio in Olanda incontrai Walter in chat.

Lo salutai. Non mi aspettavo una risposta. Era un porgergli omaggio a rabbia sedata.

Rispose ai miei saluti. Ci chiedemmo a vicenda e timidamente come andassero le cose, come proseguissero gli allenamenti. Non accennai a nulla, scelsi di non rimettere in mezzo il discorso. Sapevo che se fosse stato interessato a farlo toccava a lui. Per diversi motivi. Prima di tutto era lui che mi avrebbe ospitato a casa sua. Era lui che ci avrebbe insegnato. Toccava a lui quindi accennare all’argomento. Il secondo motivo era che speravo si chiedesse perché io non ne volessi parlare. Che sentisse che anche io ero dispiaciuto per la vicenda e per come si fosse conclusa. Che sentirsi non meritevoli di fiducia era stato per me un’offesa.

Rimise lui in mezzo l’argomento. A quel punto gli spiegai esattamente, pur senza dettagli, cosa fosse accaduto i giorni prima della partenza. Quanto odiassi i bugiardi e che sentirmi ritenuto tale da lui, senza conoscermi, era stato pesante.

“Voglio darti un’altra possibilità! Anticamente ciò non sarebbe avvenuto. I maestri anziani non davano una seconda possibilità. Ma ho deciso di darti fiducia. Voglio crederti!”.

Trattenni l’entusiasmo. In realtà ero fuori di me per la felicità, ma feci il duro. La chat me ne dava la possibilità. E mentre la mano sinistra era serrata a pugno e si scuoteva come quando un calciatore segna il goal al novantesimo minuto della coppa del mondo, l’altra freddamente e compostamente accennava un “Grazie. Non deluderò la tua fiducia”.

Le settimane che seguirono ci videro chattare sempre più spesso. Intervallando le considerazioni sul momento migliore per incontrarci e le mie domande sulle arti marziali indonesiane e sul Pukulan.

Linee, geometrie, passi, posizioni, racconti. Mi indottrinava teoricamente preparandomi a ciò che sarebbe stata la parte fisica. Mi spiegò l’Adat. Il codice di comportamento dei praticanti indonesiani. Mi spiegò la differenza tra Pukulan Madura e Pukulan Pecutan. Mi spiegò chi fossero stati i suoi maestri, mi raccontò la sua storia, quando aveva iniziato, come avesse avuto la possibilità poi di passare dal suo insegnante, all’insegnante del suo insegnante. Di come avveniva la trasmissione dell’Arte, al giorno d’oggi e anticamente. Mi spiegò molte cose del Kebatinan, l’aspetto esoterico e mistico del Pencak Silat, raccontandomi storie e aneddoti.

Divenni pieno di nozioni teoriche sul Pukulan. Ma mi mancava la parte pratica, tecnica, il vero contatto con l’Arte.

Una sera, chattando e scegliendo le date migliori per iniziare il mio indottrinamento nell’Arte, mi disse: “Potrei anche venire io da te, se vuoi”. Avendo famiglia avevo difficoltà a liberarmi facilmente. Così, fu lui a ponderare l’alternativa. Walter a Napoli, da me. Incredibile!

Gli chiesi di potergli pagare i biglietti aerei e accettò. Non voleva null’altro in cambio. Solo impegno e costanza. Non solo. In breve tempo considerammo l’eventualità che potessero venire con lui anche Olivier e Anand. Fantastico. Tutti e tre a Napoli, per quasi dieci giorni. Per allenare me e alcuni ragazzi scelti che decisi di tirare nell’avventura. Non sapevo ancora come avrei potuto sistemarli, dove, se da me, da Bruno, in albergo, dove ci saremmo allenati. Inoltre, tre biglietti aerei e un’eventuale albergo per tre persone sarebbero costati molto. Chiesi a Walter se potessi organizzare un seminario nella palestra dove insegnavo. Per lui l’idea era ok. Ma che i soldi fossero solo quelli giusti necessari per rientrare delle spese, che il seminario fosse a numero chiuso, massimo venticinque persone. Loro sarebbero stati tre. Ulteriori partecipanti non sarebbero stati seguiti in modo adeguato, rendendo tutto superficiale e inutile.

In quei mesi Walter non mi chiese mai nulla. Essendo io grafico mi chiese un consiglio su come poter riprodurre il logo dell’Arte. Possedeva solo un file di scarsa qualità in formato digitale e la toppa in stoffa. Mi offrii per riprogettargliene uno nuovo, di grandi dimensioni, modernizzato e di buona qualità. Con l’aiuto di un allievo, anche lui grafico, ricreammo alcuni dettagli, ne riprogettammo altri e nel giro di poche settimane demmo a Walter un nuovo logo, che riproducesse con precisione le caratteristiche del vecchio, quello disegnato dal suo insegnante indonesiano. Il logo del Pukulan Pecutan: le scritte, il bufalo, il riso, la frusta, il kris, il cabang, i colori.

Volevo fare qualcosa per iniziare a ricambiare Walter per la sua disponibilità. Ciò che era nelle mie possibilità, a distanza. Fu molto contento.

La data del viaggio in Italia sarebbe stata Maggio 2006.

Un altro mio allievo, Gianluca, offrì un miniappartamento per ospitare Walter, Olivier e Anand e mise a disposizione il parco di una villa a Posillipo. Uno scenario da favola, immerso nel verde, a picco sul mare del golfo di Napoli, tra erba, alberi e in prossimità di una piscina. Il luogo era un’antica residenza, quasi un castello, di una famiglia nobile napoletana divenuta poi condominio e parco privato. La compagna di Gianluca viveva lì e ci diede gentilmente la disponibilità per allenarci.

Era Febbraio e tutto era pronto per Maggio.

Pensai che con me si sarebbero potuti allenare logicamente Bruno. Gianluca, che era stato così gentilmente disponibile e un altro mio allievo.

Per Walter non vi furono problemi. Alla mia domanda la sua risposta fu: “Claudio, it’s your party!”.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Rangio on September 08, 2011, 14:43:59 pm
E' un'emozione senza pausa. Si avvertono odori e voci, suoni e colori.

Il Pukulan non è per tutti, d'accordo. Uguale sembra essere l'intensità e i colpi dei sensi che portano alla sua scoperta, è una direzione inevitabile se non per ricerca, almeno nell'esperienza di vita di chi lo pratica. Rabbia, dolore, sfida...

Parlo senza cognizione non conoscendone i praticanti nè il loro percorso intimio individuale che però sento prepotente trasparire da questo racconto. Se la ricerca è la base di partenza del marzialista, il Pukulan sembra essere il punto di arrivo di uomini che hanno mangiato polvere e ingoiato sangue e trasformano gli occhi della tigre in maestria marziale.

Non so esattamente cos'ho scritto, sono in trance  :-X
Grazie Claudio, grazie anche se non sai perchè  :thsit:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 08, 2011, 16:04:34 pm
APPENDICE - IL SIMBOLO
(quanto scritto riguarda il vecchio logo)

L’icona è un piatto bianco su cui sono scolpiti i simboli tipici di una nazione, i suoi colori, le sue metafore, i suoi animali sacri, la sua principale fonte di sostentamento, le sue principali armi.
I suoi segni di vita e di morte, le linee e le curve, il chiaro e lo scuro, l’anima e il sangue, lo spirito e la materia, il legno e il metallo.
Tutti gli opposti che divengono complementari e che convivono in un unico spazio.
Oggetti che prendono forma e significato col passare del tempo, che appaiono e divengono nitidi come gli occhi di un neonato che crescendo a poco a poco definiscono sempre più le forme e i dettagli.
Un simbolo portato sul cuore, disegnato da mani esperte e condizionate, capace di ispirare e dare l’orgoglio, la responsabilità, il furore e la passione in ogni impercettibile movimento.
E’ il simbolo del Pukulan Pecutan.
Il bordo è rosso. L’interno è bianco. Rosso e bianco. I colori della bandiera dell’Indonesia.
Ogni colore ha diversi significati.
Il rosso è il coraggio e il bianco è la purezza.
Il rosso simboleggia il corpo umano e la vita fisica.
Il bianco simboleggia l'anima e la vita spirituale.
Insieme, uno accanto all’altro, sono la completezza dell’essere umano.
In alto e in basso, a seguire il bordo rosso il nome dell’Arte: Pencak Silat Pukulan Pecutan.
Pencak Silat (Pentjak Silat) è identificato come nome comune delle tecniche e stili di combattimento indonesiani, fu adottato come tale al congresso inaugurale della Indonesian Pencak Silat Association del 1948.
E’ l’unione delle due parole indonesiane più utilizzate per descrivere le tecniche di combattimento e di difesa personale. Prima di allora, i termini utilizzati erano i singoli nomi degli stili o un’ampia varietà di termini regionali.
‘Pencak’ e ‘Silat’ sono due differenti aspetti della stessa pratica.
Pencak può essere la rappresentazione tradizionale, danzata e artistica eseguita in pubblico. Silat ne è invece l’essenza intima, la conoscenza dell’applicazione in combattimento.
Pencak è lo studio dei movimenti utili al combattimento. La sua stilizzazione. E’ l’allenamento.
Silat è l’applicazione del Pencak. Il combattimento vero e proprio.
Pencak può anche significare e rappresentare il ‘metodo di educazione’, mentre Silat è ‘amicizia’.
In questo caso, il Pencak Silat rappresenterebbe il modo per imparare a vivere in armonia nella comunità attraverso l’esercizio fisico.
Pukulan deriva dal termine Pukul. Colpo, percossa. Pukulan è l’arte del colpire, colpo multiplo. Il termine è tipico Javanese, utilizzato nella comunità ‘Indo’, un’etnia di sangue misto indonesiano e olandese.
Pecutan vuol dire frustato. Da Pecut: frusta Un nome coniato per ricordare i molti colpi frustati presenti e caratteristici dello stile
All’interno del bordo rosso, come una corona di alloro, a rafforzare i bordi e fare da cornice a ulteriori simboli all’interno, vi sono due steli di ‘Padi’, il riso.
Onnipresente. Rinvigorito annualmente dalle abbondanti piogge, con le piene dei fiumi, con il drenaggio, l’arginatura, la costruzione di terrazze e l’irrigazione dei campi, il riso è tra le fonti primarie di cibo in Indonesia e in tutto il resto dell’area su-est asiatico.
Esso rappresenta la saggezza che deriva dalla maturità e dalla prosperità. Una volta cresciuto, tenderà verso il basso, rappresentando l'umiltà del praticante. Crescente parallelamente al suo grado di esperienza.
Subito dentro al riso, posti in modo verticale, vi sono due armi. Un ‘kris’ e un ‘cabang’.
Il Kris (Keris), con la punta necessariamente rivolta verso l’alto, non è una mera arma, ma anche un simbolo culturale. Alcuni credono che la sua forma serpentina sia così in onore alla divinità serpente Naga. Vi sono miti e leggende fondate su quest’arma e genericamente in tutto l’arcipelago si ritiene che la sua lama abbia una vita propria, poteri e possa contenere o emettere influssi positivi o negativi in base agli spiriti e demoni che in esso albergano. Principalmente, tuttavia, il kris è un simbolo di identità culturale, con tutto ciò che comporta.
Il Cabang (Trisula, Siku-Siku) è un’altra arma tipica dell’arcipelago malese.
Presente anche in Cina e in Giappone con nomi diversi, ricorda un tridente la cui lama centrale supera di circa tre volte le due ai lati. Vi sono esemplari che hanno le lame laterali in direzioni opposte. Questi prendono il nome di siku-siku. Nel logo del Pukulan Pecutan il Cabang rappresenta le diramazioni: il Pukulan Madura Kombinasi di Pak Flohr.
Al centro vi è, come un serpente eretto pronto ad attaccare, una lunga frusta di cuoio. Parte dal basso e si innalza come un lazzo riavvolgendosi più e più volte su se stessa. Strumento per scacciare gli spiriti maligni, arma divenuta caratteristica di combattimenti che avvengono in occasione di alcune festività, la frusta ricorda i movimenti frustati dell’Arte e richiama il nome ‘Pecutan’. Da ‘pecut’: frusta.
(La C si legge sempre morbida. Esempi: Pecutan si legge Peciutan. Pencak si legge Penciak).
Avvolta nella frusta, campeggia una grande testa rossa di bufalo d’acqua. Il Karbau.
La testa di bufalo d’acqua è il retaggio del vecchio logo dell’Arte del Pukulan Madura.
Un animale sacro. Utile e allo stesso tempo considerato irritabile e scontroso. Fu scelto di porla in modo obliquo a simboleggiare l’atto di attaccare. Rappresenta così senza mezzi termini le caratteristiche dell’Arte: niente tregua. Un atteggiamento offensivo dall’inizio alla fine. A costo della vita e fino alla morte.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 08, 2011, 16:10:10 pm
un sentito GRAZIE per i positivi commenti  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: GiBi on September 08, 2011, 17:04:22 pm
un sentito GRAZIE per i positivi commenti  :)

Te li meriti tutti  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on September 08, 2011, 20:47:25 pm
Claudio ti rinnovo i complimenti anche io.
Scrivi veramente BENE e riesci a trasmettere in maniera incredibilmente vivida tutta una serie di emozioni e di sensazioni fisiche.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Dottor Wolvie Killmister on September 08, 2011, 21:13:33 pm
riesci a trasmettere in maniera incredibilmente vivida tutta una serie di emozioni e di sensazioni fisiche.

Trattandosi di quell'Arte, non potrebbe essere altrimenti. E' un qualcosa di abbagliante, vedere i praticanti muoversi è illuminante. Va da sè che la mente ne rimanga impressionata così indelebilmente, come un laser che incide un disco ottico.

Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on September 08, 2011, 23:19:47 pm
Va da sè che la mente ne rimanga impressionata così indelebilmente, come un laser che incide un disco ottico.

Quanto sei industrial  XD
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on September 08, 2011, 23:40:13 pm
Va da sè che la mente ne rimanga impressionata così indelebilmente, come un laser che incide un disco ottico.

Quanto sei industrial  XD
Bella questa!!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 09, 2011, 09:11:10 am
Parte XVIII - Di praticanti di Pukulan ce ne sono 5

 

Fu durante una conversazione notturna con Walter che venne fuori un interessante discorso.

“Walter, ho dimenticato di dirti che possiedo un Kris. Ultimamente ho pensato tanto a questa cosa e a come nella vita ci si trova oggetti, così per caso, che apparentemente sembra non abbiano un’attinenza con noi o con ciò che facciamo. E invece, magari ci tocca solo aspettare e vedere che tutto prende il suo posto prima o poi”.

“Si, vero”, mi rispose.

“E’ originale il tuo kris, Claudio?”.

“A dire il vero, non ne ho la minima idea. Un amico tanti anni fa me lo regalò. Amava frequentare un mercatino dell’antiquariato la domenica mattina e vide questo oggetto. Pensò di prenderlo per me. Non ricordo neanche se lo fece per un regalo di compleanno o se è stato un gesto senza motivo. Un regalo a sè”.

“Cerca di capirlo Claudio”, aggiunse.

“Un kris può essere un buon oggetto da avere in casa. Ma potrebbe anche non esserlo”.

“Cosa vuoi dire?”, gli chiesi.

“In Indonesia si pensa che i kris abbiano un’anima. Che la loro lama abbia un anima. Quest’anima può essere nel Kris nel momento in cui viene forgiato. Molto dipende da chi lo ha forgiato. Il Silat e l’Indonesia ha molte credenze. Ti troverai spesso di fronte a questo genere di cose se diventerai un praticante di Silat”.

“Walter, io ho spesso la sensazione che tutto ciò dovesse accadere prima o poi. Ci sono cose che ci lasciano pensare che gli eventi siano scritti e altre che accadano a caso. Io non so quale sia la verità, ma penso che tutta questa faccenda del Pukulan, il modo, i tempi, è come se fosse già tutto preordinato e scritto”.

“Fidati delle tue sensazioni, Claudio. Magari non è così o magari lo è. Chi può saperlo. Se senti che qualcosa è importante, che merita i tuoi sforzi, le tue attenzioni, il tuo impegno, allora portala a compimento senza incertezze. Abbiamo questa vita. Non sappiamo se ce n’è un’altra. Quindi, fa quello che desideri fare”.

“E’ quello che sto facendo. Ma mi trovo spesso a pensare che è talvolta spesso una questione di fortuna, tempi giusti. Se non fossi stato lì quel giorno, al seminario a Milano, se non avessi visto questo modo di praticare …. Conosci quel detto tanto famoso nelle arti marziali: il Maestro arriva quando l’allievo è pronto. Ecco. Rispecchia ciò che penso”.

“Io non sono un maestro, Claudio. Non si considerava maestro il mio insegnante. Mi ha sempre detto che nel Pukulan siamo tutti principianti. Tutti costantemente impariamo. E si impara anche dalle persone a cui noi insegnamo e trasmettiamo l’Arte. Come posso io pensare di me di essere un Maestro, un Guru, quando pratico da poco più di trenta anni, mentre chi insegna o insegnava a me e pratica da oltre cinquanta mi dice che lui non è un Maestro? Claudio, io nella mia vita ho conosciuto solo cinque praticanti di Pukulan. E sono nell’ambiente da oltre trenta anni. Credimi. Ne ho visti e conosciuti solo cinque. E io non sono tra questi cinque”.

Ero perplesso. Walter, dopo trenta anni di Pukulan non si riteneva un vero praticante. Avevo visto in passato persone che si ritenevano praticanti, insegnanti, Guru, maestri o istruttori, dopo così poco tempo che le parole di Walter mi sembravano assurde. Ma lui non parlava di essere Maestri, ma semplici praticanti. Iniziavo a cogliere l’essenza della sua mentalità e del loro modo di vedere quell’Arte.

“Io vedo i miei insegnanti come dei Maestri”, continuò.

“Ma non loro. Non si sono mai comportati o atteggiati come tali. Sono le persone che da loro apprendono a vederli in quel modo. Un Maestro può finire mai di imparare? Se si, come può un Arte essere ‘finita’? Se no, se un Arte non ha fine, se non la si finisce mai di apprendere, se ci sono sempre cose nuove da scoprire, e ti assicuro che è così, allora come si fa a sentirsi Maestri? Per apprendere davvero un’Arte non basta una vita. Anzi. Pensare di poterlo fare è pura illusione. Per questo motivo sono ridicoli quei personaggi che dicono di praticare, conoscere o insegnare più arti marziali, più stili, più sistemi. Quando credi che non basti una vita per capirne una, come pensi di accettare una mentalità come quella di chi studia e dice di conoscere dieci stili? Io prendo il primo Jurus del Pukulan Pecutan. Parlo del primo, non dell’ultimo. Lo eseguo e dopo oltre trenta anni scopro nuove cose e nuovi aspetti. Come si può passare oltre? Come si può mettere da parte e studiare arti e meccaniche così in contrasto tra loro e pensare di poterle padroneggiare. Se è possibile, allora Claudio, ammetto di non aver capito nulla. Sono io un inetto e gli altri sono dei geni. Tanto di cappello”.

“Capisco”. Non sapevo cos’altro dire. Avevo fatto parte di quella mentalità e ancora di Pukulan non capivo nulla. Il mio allenamento ancora non era iniziato. Ma per Walter non era così. Per lui io stavo già apprendendo. Non fisicamente. Non tecnicamente. Non le meccaniche, i Jurus e i movimenti. Stavo entrando nella mentalità di chi lo praticava. Del loro modo di vedere quell’Arte e le altre. Venivo introdotto al loro ‘Adat’. Il loro modo di comportarsi, di agire e di pensare.

Ma il discorso divenne più interessante.

“Claudio, il nostro modo di allenarci o comportarci onora o disonora chi ci ha trasmesso l’Arte e va a ritroso nel tempo agli antenati. Come nella vita, se il tuo comportamento è disdicevole verso gli altri e verso te stesso, allora disonori tuo padre, tua madre, la tua famiglia e il suo nome, allo stesso modo se la tua pratica non rispetta certi canoni, se vendi te stesso e vendi la tua Arte, se ti alleni in modo blando e senza voglia, senza impegno, allora è meglio non farlo. ‘Show Good or Don’t Show’, ricordi? Quello vale sempre”.

Fa bene le cose o non farle. Ricordavo quell’espressione.

“Noi sappiamo che se la nostra pratica è buona, allora non potrà che migliorare ulteriormente. Crediamo nella benedizione degli anziani che ci hanno preceduto, e dei loro insegnanti e degli insegnanti dei loro insegnanti, fino al fondatore. Chi pratica e esegue porta con se lo spirito di tutti loro e da loro riceve nuovo impeto e benedizione. Ne riceve energia e conoscenza. Se si pratica in modo sbagliato avviene il contrario. Non importa se ciò è vero o meno. Ciò che conta è che nella nostra mentalità ci sia questo modo di agire e di vedere le cose. Onore e rispetto. Verso se stessi, verso gli altri, verso chi ci insegna e verso coloro ai quali trasmettiamo a nostra volta. Quando pratico non mi sento mai solo. Quando combatto non mi sento mai solo. Se ho la benedizione degli anziani, se mi trovo in difficoltà gli anziani sono con me. Io porto con me a ogni movimento il sapere di chi mi ha trasmesso e ho il dovere di usarlo bene. So chi mi ha insegnato che persona era, so come si comportava, come era ‘paterno’ verso i suoi studenti e con quale amore e senza chiedere nulla in cambio se non impegno e costanza amasse trasmettere quest’Arte. Io non posso comportarmi diversamente. Lui era ospitale e aperto agli altri, lo stesso faccio io. Lui insegnava senza chiedere soldi. Lo stesso faccio io. Lui era un esempio e io cerco di rendere onore alla sua memoria facendo altrettanto”.

Tutto sembrava logico e normale. Ma non lo era. La mentalità corrente non era e non è quella.

Era come se qualcuno stesse per affidarti un diamante, ma senza volerlo poi indietro. Eccolo, è tuo. Curalo, fanne buon uso. Donalo. Se riesci fallo a pezzi e dividilo con altri, ma non sprecarlo. Non tenerlo lì inutilmente. Non darlo a tua volta a chi non credi possa curarlo altrettanto bene. E se non sai cosa farne, allora non accettarlo. Darlo ad altri non è una necessità ne un guadagno.

Quante volte avevo visto aprire negozi e supermercati da una pietra mai lucidata e opaca.

Avevo a disposizione qualcosa che era stata conservata lucida e mi veniva offerta la possibilità di averne cura. Ne sentivo tutta la responsabilità. Walter mi stava responsabilizzando. Forse mi stava addirittura caricando il tutto di un peso eccessivo, oltre misura, mi stava dando un fardello maggiore di quello che in seguito si sarebbe rivelato? Cercava di capire se avessi la voglia di abbracciare quel modo di vedere le arti marziali ormai quasi fuori moda, perso, estinto. Un fossile. Io stesso mi chiedevo continuamente se fossi in grado di accettare l’impegno. Temevo di sfigurare, di non essere all’altezza. Ma forse tutto ciò faceva parte dell’allenamento. Non quello fisico, ma quello spirituale.

Non avevo la minima intenzione di rinunciare al Pukulan. Anche se avessi rischiato di sentirmi dire: mi spiace Claudio. Ma non è per te. Il desiderio di potere indossare un giorno quella maglia a strisce, che a prima vista mi risultò così strana, iniziava a farsi sentire con prepotenza e i discorsi di Walter invece di avvilirmi e farmi desistere, stavano avendo su di me l’effetto completamente opposto.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on September 09, 2011, 09:19:41 am
in quest pagina hai superato te stesso
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: bushi highlander on September 13, 2011, 18:30:31 pm
Seguo con attenzione! Claudio, dovresti fare lo scrittore... :) :) :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 14, 2011, 09:50:11 am
Parte XIX- l’importanza di una discreta ricerca

 
“Ma stavamo parlando del tuo Kris”, mi rammentò Walter.

“Giusto. Come sempre iniziamo a parlare di qualcosa e ci spostiamo di argomento in argomento”, aggiunsi. Gli argomenti erano sempre tridimensionali. Andando in profondità con uno di essi si scoprivano nuove sfaccettature e nuovi interi panorami si aprivano agli orizzonti della curiosità.

Si poteva discutere di qualcosa, ma si sapeva che si sarebbe automaticamente tirato in ballo per associazione di idee qualcos’altro. Tecnica, storia, magia, cultura, personaggi, era tutto così amalgamato da non riuscire a distinguere e separare una nozione dall’altra. D’altronde per un curioso cosa v’è di meglio del ricercare persino il filo del discorso perso. Quando l’interesse per qualcosa potrebbe abbracciare così tanti campi di ricerca da essere troppo ampio per essere contenuto tra le proprie braccia.

“Non so minimamente se il mio kris sia originale o meno”, conclusi.

“Beh, cerca di scoprirlo”, scrisse.
“Già! E come?”, gli chiesi.
Per qualche decina di secondi non mi rispose. Pensai che fosse indaffarato a chattare con qualche signorina. Poi, la risposta.
“Chiedilo al tuo kris”. Appena dopo quella curiosa risposta aggiunse un “hahahahahaha”.
“Ok, è ufficiale. Mi prende per il culo”, pensai.
Aggiunse poi: “sul serio Claudio. Chiedilo al tuo kris”.

Ricordai le storie dei kris che avevo letto e sentito. La risposta, tuttavia, mi lasciò perplesso. Se fossero state vere potevano funzionare con esperti. Con persone che masticavano dell’argomento. Feci notare la cosa a Walter che mi spiegò che se un kris è originale e forgiato in un certo modo, la sua lama, avendo un’anima, avrebbe potuto parlare al suo proprietario.

“Claudio, un kris è formato da varie parti e da vari materiali. Lava la lama del tuo kris nel succo di limone in modo da tirare fuori i Pamor dal ferro. Tira via le impurità. Rendigli omaggio. Se il kris è ‘originale’ farà in modo di fartelo sapere”. Ma io non sapevo nulla di quelle strane faccende. Lavare un kris? Rendergli omaggio? Ma non sapevo neanche come impugnarlo e rendergli omaggio salutandolo. Ammesso che credessi a quelle storie, e non ci credevo, come avrei potuto farmi dire
dal kris se fosse o meno originale?
E quei termini usati da Walter? Pamor?
Tempo prima comprai via internet un libro di uno dei primi che si interessarono alle arti marziali del sud est asiatico e indonesiane: Donn F. Draeger.

Reperire buoni libri sulle arti marziali è sempre stato difficile.
Quasi tutti i testi scritti sull’argomento magnificano uno stile o sono superficiali ricerche sullo stile praticato, senza alcuna bibliografia, senza alcun rigore storico e scientifico. Scritti per sentito dire, trasmissioni orali, spesso da palestra e nulla più. La mancanza di documenti validi sulle arti marziali orientali ha sempre stimolato il proliferare di amenità, inesattezze storiche e geografiche o i soliti luoghi comuni che lo stile y provenga dallo stile x o che il paese x ha trasmesso la sua cultura marziale al paese y.

Documenti seri e ben scritti sulle arti marziali in genere, soprattutto in lingua italiana, scarseggiano. Anzi, non ne ricordo neanche uno. D’altronde non sarebbe un compito semplice. Solo su uno stile si potrebbero scrivere vari trattati, come si potrebbe compilarne uno che abbracci tutto lo scibile marziale con le sue svariate migliaia di stili, sistemi, sottostili e affini?

Possibili sono solo brevi e rapide panoramiche. Voli di gabbiano sulle caratteristiche basilari e storiche dei più famosi stili praticati. Scritti, comunque da non praticanti di questi stili o al massimo solo da un paio di essi. Con approfondimenti, ci mancherebbe, riguardo a ciò che quegli stessi scrittori praticano.

Prima che la mia tesi deviasse verso il Jeet Kune Do di Bruce Lee e la sua filosofia doveva essere sulla storia delle arti marziali cinesi.
Un compito infame. Libri reperibili? Qualcuno in cinese.
Il professore che mi seguiva in quella scellerata scelta era un esperto della materia. Un non praticante, ma un ricercatore della civiltà guerriera del ‘Paese di Mezzo’ (la Cina). Mi consigliò di leggere e tradurre, anzi, tradurre e leggere testi letterari sui cavalieri erranti, romanzi in cui vi erano scene di combattimenti. Ma tutto era combattimento armato. Storie di spadaccini, alabarde, carri. Di arti marziali a mani nude, come siamo abituati a pensarle, nulla. Cenni storici in libri sulle storie e civiltà orientali? Nulla! Strategie militari, stratagemmi, carri, eserciti, cavalli, l’equitazione, il tiro con l’arco. Leggevo che la difficoltà nel reperire il materiale era dovuto alla ‘moda’ in Cina di bruciare i libri periodicamente. Io ci scherzo, ma in realtà ciò avvenne diverse volte. Il primo fu Qinshi Huangdi, primo imperatore della Cina nel 221 a.C., seguace della scuola legalista. Questi ordinò di bruciare tutti i libri di svariati argomenti precedenti a lui. Medicina, arte, storia, filosofia. Tutto o quasi venne bruciato. Mao riprese questo piacevole passatempo cercando di azzerare la cultura cinese precedente. Tutti presero un po’ troppo alla lettere il consiglio del filosofo taoista Laozi, quando scrisse nel suo Daode Jing che per governare era necessario tenere il popolo ignorante.

Ma sto perdendo il filo del discorso.
Ad ogni modo. Avevo tanti libri sulle arti marziali orientali e mi accorsi che non avrei mai potuto scrivere la mia tesi basandomi su di essi. Il mio professore controbatteva ogni affermazione sulle origini delle arti marziali che avevo letto su quei testi chiedendomene una validità. Bibliografia, fonti, dov’erano?

Lo odiavo sempre di più e continuando a scrivere mi rendevo conto che in mano non avevo nulla. Carta inutile accumulata in tanti anni. Nomi di luoghi errati, date errate. Mi metteva continuamente di fronte all’evidenza dell’inutilità di libri scritti in quel modo. Collezioni di luoghi comuni e nulla più. Fui costretto a cambiare argomento, mutando la ricerca storica sulle arti marziali cinesi in qualcosa che era più semplice e vicino: Bruce Lee e il Jeet Kune Do.

Non ci accordammo mai neanche su quello. Bruce Lee era troppo iconoclasta per lui, tradizionalista convinto. Andai fino a Varsavia per discutere la bozza finale della tesi e tornai, in macchina, con una risma di fogli segnati in rosso e i nervi a fior di pelle per la continua polemica con lui avvenuta per cinque ore filate su di una panchina appena fuori un grande parco della capitale polacca.

Cambiai relatore e non contattai mai più il buon Kristoff G.
Ma appresi a cercare.
Ora non posso che ringraziarlo. Non accetto nulla per oro colato. Ogni libro viene da me analizzato dalle ultime pagine. La bibliografia e le fonti che lo hanno ispirato. I dubbi non sono più l’ostacolo, ma il vettore che mi porta altrove e mi spinge a cercare meglio e più a fondo.

Attualmente se vedo un libro interessante guardo la bibliografia, leggo le note e mi segno i testi principali e gli autori. In rete reperisco liste di altri libri pubblicati da quegli autori e, se è il caso, acquisto i testi in lingua originale. A sua volta, cerco nella bibliografia e se è il caso, mi informo prima, compro poi i libri che più frequentemente appaiono nelle note e come fonti principali. Così, vado a ritroso.

Ho appreso che le arti marziali sono state, nei secoli, principalmente o quasi del tutto arti armate.
Per trovare fonti attendibili su qualcosa a mani nude si deve guardare al XX secolo. Massimo al secolo prima. Raramente si trova materiale precedente. D’altronde, in guerra è armati che si andava, il trovarsi a mani nude e disarmati era un errore, una distorsione o una fatalità.

Dunque, se leggete o sentite persone che vi raccontano storielle su millenari stili arrivati fino a noi così, a mani nude, trasmessi nelle palestre e da maestro a allievo, allora fatevi due conti.
I migliori libri sull’argomento sono quelli che mettono dubbi e stimolano nuove ricerche. Non quelli che danno le risposte. Poiché non ve ne sono di certe.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: conanramon on September 14, 2011, 20:01:58 pm
"Ho appreso che le arti marziali sono state, nei secoli, principalmente o quasi del tutto arti armate.
Per trovare fonti attendibili su qualcosa a mani nude si deve guardare al XX secolo. Massimo al secolo prima. Raramente si trova materiale precedente. D’altronde, in guerra è armati che si andava, il trovarsi a mani nude e disarmati era un errore, una distorsione o una fatalità."


questo è un tema molto interessante che meriterebbe apposito thread

Io non ho avuto modo do fare ricerche approfondite come le tue ma la penso come te:  ho visto vari documentari di antropologia relative alle aree geografiche piu diverse del pianeta e non ho mai  visto arti marziali a mani nude praticate ma solo armate, tutti i libri che ho letto relativi alle popolazioni precolombiane mi hanno confermato tutto ciò

forse c'era qualcosa a livello di gioco tipo la lotta senegalese in qualche civiltà, ma penso fosse piu un gioco per le feste che un arte marziale vera e propria

del resto che se si guarda ai top mma  e si pensa che fedore emilanenko è stato operato dal piu bravo chirurgo russo specialista in chirurgia della mano, cro cop è andato in svizzera per farsi operare al tallone e ha un impianto , minotauro ha subito 2 interventi all'anca e uno credo al ginocchio etc. e si osservano le prime protesi dei Navaho i conti tornano....

Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 30, 2011, 10:13:54 am


APPENDICE – … DA CIELO E TERRA

Illustrissimo Signor Bauer
Mi chiamo Hasyim M. Gumacep, sono nato e vivo a Bali e ho l’onore di ritenermi un caro amico del Signor Eijkman, suo stimato collega.
Prima di tutto La prego di scusare il non poterle scrivere nella sua lingua, ma so che lei padroneggia alla perfezione l’olandese e mi sarà più facile comunicare con lei usando l’idioma del nostro comune amico.
Su segnalazione dello stesso Signor Eijkman, nonché per correttezza, mi preme informarla di alcuni particolari circa la sua richiesta di acquisto di alcuni kris per il suo negozio di antiquariato a Dusseldorf.
Io e il Signor Eijkman siamo legati da antica e vera amicizia e in un certo qual modo, anche a ragione delle numerose volte in cui il Signor Eijkman mi ha parlato di lei, ho un po’ la sensazione di conoscerla, seppure indirettamente, e le chiedo la libertà di sentirmi anche un po’ suo amico.
Per questo motivo mi accingo a rubarle qualche minuto della sua giornata per fornirle alcune notizie e informazioni sugli oggetti da lei indirettamente richiesti.
Capisco perfettamente che a occhi occidentali ciò che sta per leggere potrà sembrar pittoresco e bizzarro, anzi, oserei dire grottesco, tuttavia certe tradizioni e credenze sono così profondamente radicate in Indonesia, così come a Bali, da non poter fare a meno di richiedere la sua attenzione.
Un kris non è un’arma. Ovvero, non è solo un’arma. Tantomeno un mero oggetto da collezionare o riporre su un mobile. La invito, nonostante la ricercatezza o ricchezza dei materiali, a non considerarlo neanche un gioiello. A dispetto del prezzo che può meritarne l’acquisto.
Un kris è un simbolo.
Trovo difficoltà a spiegarle quanti significati può avere per noi possederne uno. Trovo difficoltà a riassumerle, evitando così di tediarla oltre misura, le caratteristiche intrinseche. Ciò che non si vede.
Quale stimato antiquario lei certamente sarà già a conoscenza delle specifiche dell’oggetto in sé, ciò che mi preme spiegarle è di natura spirituale e mistica. Poiché, nonostante esistano libri sull’argomento e sui materiali, le forme e le altre sue caratteristiche fisiche, ciò che si tralascia spesso sono le descrizioni e le informazioni su cosa è e significa un kris per un indonesiano o un malese.
Vedrà che dopo questa lettura un kris assumerà nuova luce e valore.
Le chiedo umilmente di perdonarmi nel caso le scrivessi cose di cui lei è già a conoscenza
Cielo e Terra.
Un kris ne è la congiunzione.
Creato e forgiato non da un uomo, bensì attraverso un uomo, si narra che i primi fossero stati fatti usando pietra meteoritica. Un enorme meteorite giunto dal cosmo, recante i suoi poteri, sulla nostra grande isola.
Caduto dal cielo o raccolto nelle viscere della nostra terra, il frutto del Cielo o della Terra.
Si pensa che il kris sia nato in Indonesia e poi diffusosi anche in Malesia. Ad ogni modo, vi diamo così tanta importanza da dar vita al detto: ‘Giava senza kris non sarebbe Giava’.
Storia e leggenda si mescolano fino a rendere difficile il distinguerle. Bassorilievi nei templi, antichi manoscritti, leggende orali, studi accademici, ci sarebbe così tanto da narrarle sul kris, ma voglio erudirla sul significato e nulla più.
Alcune leggende ci narrano della nascita del kris a Giava, all’epoca del regno di Majapahit.
La conferma è un bassorilievo nel tempio di Suku, datato XIV secolo, in cui vi è raffigurato Bima, il Dio-Guerriero, che a mani nude forgia un kris usando le proprie ginocchia come incudine.
Al di là delle leggende e delle supposizioni, l’origine del kris resta oscura.
Talvolta per comprendere il significato di qualcosa, però, non è tanto alla storia che si deve guardare, ma ai miti e alle leggende. Il suo significato in quanto simbolo è lì meglio rappresentato.
Eroi, semidei, guerrieri mitici, re, il kris è legato ad ognuno di loro, alle loro fortune o rovine, spesso ai loro poteri e abilità in battaglia.
Tra i primi possessori di kris si annoverano il re Hindu Sakutram, il re-guerriero Panji, Radin Inu Kartapati, re di Janggala nel XIV Secolo.
Tra questi il leggendario eroe malese Huang Tuah. Si dice che il kris di Huang Tuah non avesse fodero e che anzi considerasse come proprio fodero il corpo del nemico. Che potesse persino volare di propria volontà fino al bersaglio prescelto.
Ma parlando di poteri di un kris, come non accennare a Raden Patah, il guerriero musulmano che combatté il regno di Majapahit. Il suo kris aveva il potere di scatenare dalla sua punta interi sciami di calabroni.
Stimato Signor Bauer, un kris ha caratteristiche uniche che lo rendono un oggetto speciale. Ogni materiale ed ogni sua parte è densa di significati e credenze che affondano nella nostra storia e nelle nostre tradizioni. La lama e i tipi di ferro, l’impugnatura, il manico. Non ultimo il fabbro che lo ha forgiato. Tutto ciò dà ad ogni kris le sue caratteristiche ultime e uniche. Nonché i suoi poteri.
Immagino che queste parole possano suscitare scetticismo. E’ perfettamente comprensibile. Ma ciò che conta non è se tali leggende e credenze siano vere o mero frutto di fantasia. Ciò che conta è la forza spirituale che l’oggetto grazie ad esse riesce ad assumere. Ed è questo che ci si trova tra le mani quando si impugna un kris. Non solo la purezza o la preziosità dei materiali.
Siamo un popolo che crede che tutti noi siamo in continuo contatto con le forze dell’universo, con le sue influenze positive o negative. Crediamo che certi oggetti possano assorbire tali energie e ritrasmetterle all’ambiente circostante e al suo possessore. Una forza misteriosa avvolge il creato e tutti gli esseri. Noi chiamiamo questa forza con il nome di ‘mana’. Il ‘mana’ è l’energia intrinseca delle cose. E’ il loro spirito. Un oggetto dotato di tale forza aumenta il suo potere con il tempo e l’accumularsi degli eventi. Ma non solo eventi esterni possono agire su tale potere. Le caratteristiche stesse dei materiali scelti e di chi lo ha forgiato ne aumenta tale potere.
Per questo, sappiamo che un kris può costituire un vantaggio o una danno per il suo possessore.
Persino le misure di un kris possono essere ritenute fortunate o meno. Un kris che andasse oltre le ‘misure fortunate’ sarebbe ritenuto sfortunato e si pensa che prima o poi possa rivoltarsi contro il suo stesso possessore.
Per noi un kris ha di base sempre una forza positiva, ma che tuttavia questa forza, anche se positiva, potrebbe non venir bene gestita dal suo proprietario. Un kris adatto ad un guerriero potrebbe non esserlo per un contadino. Uno perfetto per un Adhipatti (reggente) potrebbe non esserlo per persone di rango inferiore. In realtà, ogni kris dovrebbe essere forgiato e destinato ad un individuo preciso.
Ogni kris può conservare ricordi positivi o negativi e liberarli in determinati momenti o a determinate persone. Un kris trafugato durante un saccheggio in cui sono avvenuti stupri, violenze e che apparteneva a qualcuno ucciso per prenderglielo non è un oggetto consigliabile da tenere in casa. Potrebbe significare sfortuna e malasorte per l’abitazione in cui è esposto o per il suo possessore fino ai suoi discendenti. Un tale kris potrebbe venir considerato maledetto e portatore di sventure e maledizioni. Fino alla possibilità di contenere al suo interno presenze malevole. Logicamente, potrebbe essere il contrario. Tutto varia in base alla storia e agli eventi legati a quell’oggetto. Scegliere un kris non dovrebbe essere una cosa fortuita o affidata al caso. Ci sono precisi segni che fanno capire se un kris è adatto ad un preciso possessore o acquirente: l’importanza di chi lo ha forgiato, i disegni sulla lama, il numero di uccisioni o di volte che ha versato sangue.
A tale proposito vorrei aggiungere che s’è sviluppata la credenza che un kris, considerato anche l’arma della vendetta, potesse aumentare il suo potere in base al numero delle uccisioni compiute. Soprattutto in Malesia si crede ancora che un kris ferendo o uccidendo qualcuno ne aspirasse l’anima e che bagnandosi del sangue della vittima ne assumesse abilità e conoscenze.
Un kris autentico dovrebbe essere perfetto nelle forme e nei materiali scelti. Nella lunghezza e nell’ampiezza della lama, nel numero di ‘curve’. Un kris autentico lo comunica al proprio possessore prima o poi e il proprio possessore dovrebbe rendergli omaggio conservandolo con cura, onorarlo secondo riti particolari e in giorni particolari. Dovrà lavarlo con succo di limone. Ficcarne ad esempio la lama in un tronco di banano o immergerla in un bambù ricolmo d’acqua. I giorni migliori per certi rituali variano da zona a zona. Tra giovedì e venerdì per i giavanesi, in occasione di alcune festività come il ‘jumat kliwon’ o il venerdì per i malesi o le etnie musulmane.
Soprattutto a Bali crediamo ch il potere di un kris possa perdurare a lungo se lo trattiamo con cura
onorandolo con offerte secondo il calendario balinese, al punto da fermare le piogge durante i giorni delle cerimonie o al contrario far piovere durante le stagioni secche. Crediamo che possa anche comandare il fuoco. Puntando la lama su un oggetto infuocato si pensa sia possibile spostare la fiamma o l’oggetto altrove a piacimento.
Ma numerosi possono essere i poteri di un kris: rendere invisibili in battaglia, concedere la facoltà di farsi obbedire, c’è chi dice di aver visto acqua colare dalla lama di un kris. Il fenomeno è possibile quando sono stati praticati precisi incantesimi e la lama strofinata tra pollice e dito indice, con un movimento simile a quello usato per mungere una mucca.  Dopo le prime poche gocce il flusso può aumentare e la lama può diventare flessibile. A fine processo la lama ritorna alla normalità.
Si dice anche che un kris possa uccidere una persona designata anche semplicemente puntandoglielo contro.  C’è chi crede che un kris possa saltar fuori dal fodero e combattere per il proprio possessore o che un kris possa avvertire il proprio possessore del pericolo vibrando.
Ad ogni modo, i poteri di un kris devono essere usati per emergenza o necessità e mai per vanità o dar spettacolo.
A dare tutti questi poteri è l’unione dei vari elementi e dei vari materiali con cui l’arma è stata creata. Non solo la lama ha i suoi poteri, grande ricercatezza e attenzione viene prestata anche al fodero o all’impugnatura.
Spesso il fodero di un kris è fatto di legno (kayu). Generalmente viene scelto il ‘timoho’. Quello del ‘timoho’ è un albero speciale. Si crede che in esso viva uno spirito che si manifesta nelle sue venature. Questo legno viene estratto solo dagli alberi tagliati in giorni particolari indicati dalla tradizione e la cui inclinazione verso un determinato punto cardinale rispetta i canoni previsti.
In particolare a Bali, alcuni tipi di legno come il ‘kayu kelet’ è considerato un dono del Cielo e per questo non viene mai coperto da altri materiali, neanche con l’oro.
Anche le impugnature danno maggior potere e ‘mana’ ad un kris. I materiali vengono scelti con cura e attenzione. L’avorio ricavato dal molare dell’elefante ha il potere di contrastare le energie negative e la magia nera mentre il corallo nero ha potenti proprietà talismaniche.
Peculiare è l’abitudine di porre nell’impugnatura dei kris, talvolta, dei capelli umani. Questi vengono considerati portatori della forza dei loro possessori.
Le figure intagliate o scolpite sulle impugnature aumentano ulteriormente l’energia di un kris.
Soprattutto a Bali usiamo incidere e cesellare dei, guerrieri, demoni, figure mitiche o eroiche per aumentare il potere protettivo dell’arma.
Ma il cuore di un kris è la sua lama. Lì risiede gran parte del suo potere. La sua lama è viva.
Nonostante possa essere anche dritta, un kris è facilmente raffigurato con una lama dalla forma serpentina.
Diamo importanza al serpente come animale. Esso ha molteplici significati: Dio delle tenebre e del profondo, signore delle acque del mondo sotterraneo e delle forze della natura o della fecondità.
Naga è il serpente o drago-serpente e non di rado viene inciso o aggiunto sulla lama per mezzo di altri materiali, quasi come una lunga striscia d’oro che percorre tutta la lunghezza della lama.
C’è chi affonda la lama di un kris appena forgiata nel cervello e nelle viscere di un serpente per aumentarne l’energia.
Altri animali mitici e figure vengono incisi su di essa, da demoni a figure ibride, unioni del mondo umano e quello animale.
Ma della lama, ciò che più conta e la rende unica è il ‘pamor’.
Secondo il particolare disegno del ‘pamor’ un kris può avere influenze positive o nefaste. I vari tipi di ‘pamor’ hanno un loro nome pittoresco in base a ciò cui rassomigliano. La marezzatura o damaschinatura di un ‘pamor’ può essere orizzontale, verticale, a spirale. Ognuna ha i suoi poteri.
Vi sono ‘pamor’ dai poteri negativi. Può accadere che tale disegno esca di sua spontanea volontà e non voluto da colui che lo ha forgiato. In questi casi il kris viene gettato via o regalato ad un museo, ma può avvenire che il proprietario lo voglia tenere. In quel caso sarà necessario dotarsi di un kris il cui ‘pamor’ sia in grado di contrastare o allontanare le influenze negative dell’altro.
Mio stimato lettore e amico, peccherò di orgoglio confessandole che ho l’onore di appartenere ad un’antica famiglia di fabbri. Mio padre e a sua volta suo padre e il padre di suo padre si sono tramandati questo ‘pusaka’ (eredità). Sono umilmente l’ultimo, anche come esperienza, ma cerco di tener viva questa tradizione. Le nostre conoscenze e abilità si sono sempre tramandate da padre in figlio. Mio nonno lavorava a corte e creava kris per i reggenti.
Grande onore gli fu riservato dal raden adhipatti di Bali (reggente). Grazie alla sua abilità visse a corte, esentato dalle tasse, libero unicamente di dedicarsi alla forgiatura di kris unici e irripetibili. Gli fu concessa in sposa una fanciulla nobile e così, nel mio sangue vi è ancora traccia di tali origini. Il nome della mia famiglia è riportato nelle genealogie degli scribi di corte, insieme al nostro stile di famiglia, al tipo di ferro usato, ai disegni più caratteristici, alle forme delle lame, ai loro poteri e le indicazioni dei rituali impiegati durante le forgiature e in seguito per conservare la lama.
Le suonerà strano, ma all’ ‘empu’ viene data un’importanza enorme. L’ ‘empu’ (fabbro) è colui che crea la lama unendo Cielo e Terra, il ferro meteoritico e il ferro preso nelle viscere della nostra terra. Grazie a lui ogni kris ottiene i suoi poteri, grazie alla sua magia, alle sue preghiere, alle sue offerte.
Nel periodo che precede la forgiatura di una lama il fabbro si ritira in meditazione e preghiera su un monte, una giungla o una caverna. Lì resta per il periodo necessario in attesa di un segno da parte delle entità divine o degli antenati che gli hanno tramandato l’abilità.
Preghiere, rituali, offerte continuano per il tempo della forgiatura. Il culmine è raggiunto quando il fabbro infonde nella lama lo spirito, dandole un’anima propria e rendendola ‘viva’.
In tutta l’Indonesia, la figura del fabbro armaiolo era quasi vista come quella dello sciamano, dotato di poteri particolari, capace di infonderli nell’arma creata. Un kris poteva dunque proteggere, dare l’invulnerabilità o guarire. Ma allo stesso tempo un kris poteva dare la morte ad un nemico semplicemente visualizzandolo nel pensiero e puntandoglielo contro da lontano.
Si raccontano persino storie di vergini sacrificate al kris affinché lo spirito o l’anima entrassero nell’arma e che quindi i segni caratteristici sulla lama fossero i capelli della ragazza.
Spero di non averla annoiata con queste storie e queste leggende. Sono tipiche del mio popolo e delle mie terre. Sarò felice di potere aggiungere ulteriori notizie e informazioni su esemplari particolari qualora lei me lo chiedesse.
Sarà un onore soddisfare qualunque sua ulteriore curiosità a riguardo. Sono tante le cose da raccontare e ho ritenuto necessario farle semplicemente una panoramica generale dell’arma.
Ad ogni modo, le spedirò i kris da lei richiesti corredati da una scheda informativa che ne presenti caratteristiche, storia e suo ‘empu’.
Presterò attenzione affinché non le arrivino esemplari dalle origini ignote, assicurandole oggetti i cui possessori precedenti non siano legati a fatti o accadimenti ‘oscuri’.
Nonostante ciò, la pregherei di segnalarmi il kris che le potrà recare problemi.
Purtroppo, anche kris che non hanno mai dato segnali negativi di alcun genere ai loro vecchi possessori, possono all’improvviso mutare le loro influenze in base al nuovo proprietario, al suo carattere o al luogo in cui si troverà.
Ne caso dovesse avvenire una tale malaugurata evenienza, sarò solerte nel darle le indicazioni migliori per risolvere il problema nel minor tempo possibile.
Le porgo i miei più sentiti auguri e le auguro una vita piena e serena.

Hasyim M. Gumacep
18 Ottobre 1955
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: beppegg on September 30, 2011, 17:46:39 pm
... è bellissimo!

La tua esperienza, e il modo in cui la racconti!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on September 30, 2011, 18:01:05 pm
Claudio non so se questa lettera l'hai redatta tu o l'hai """solo""" tradotta, ma intentrambi i casi è scritta veramente BENE.
Ma bene sul serio. Anzi, se l'hai tradotta è ancora meglio.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 30, 2011, 18:51:18 pm
Le appendici sono piccoli brani sulla cultura che circonda l'Arte.
Messi così e ogni tanto stemperano la possibile pesantezza di lughe parti sulla cultura indonesiana.
Servono per penetrare un pò + 3d il resto del racconto.
Tutte le appendici sono mie invenzioni.
Anche l'appendice in rime "Resoconto di un prigioniero" sulla storia di Felipe De Brito è una mia composizione basata sulla storia reale di Felipe De Brito.
 ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on September 30, 2011, 18:52:44 pm
E allora ti rinnovo i complimenti.

Ma vuoi pubblicarci qualcosa?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on September 30, 2011, 18:59:01 pm
il pensiero c'era. Poi, visti gli sviluppi del gruppo del Pukulan e quanto amaro si sia rivelato il frutto anche dal punto di vista umano la voglia è un pò passata e sono fermo da due anni.
Ciò che sto scrivendo sono le impressioni di un mondo di due anni fa.
Adesso tutto sarebbe visto con occhi diversi... Mi sono fermato appena prima che Walter arrivasse per la prima volta a Napoli e sarebbe quello il cuore della storia, dove dovrei raccontare in una sola volta nozioni e episodi accaduti poi cronologicamente in modo scaglionato nell'arco di 4 anni... (anche se mi arrivano voci che io abbia fatto Pukulan per scarsi due anni... bah...  :dis: .. insomma questa è la versione che inizia a circolare.. ridiamoci su..)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: salix on October 01, 2011, 09:48:25 am
Seguo anch'io il tread: La storia è veramente interessante.
Ti ringrazio per la condivisione e ti faccio i miei complimenti anche per lo stile (di scrittura, oltre che di pratica)

Solo non fare più pause così lunghe: me stavo a proccupà... XD
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ragnaz on December 27, 2011, 11:52:33 am
HO appena scoperto questo magnifico 3D!! come mai è.... rimasto fermo a ottobre? successo qualcosa?  ???
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on January 02, 2012, 11:07:48 am
ciao
mancanza di tempo per impegni lavorativi
riprenderò appena posso
 ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ragnaz on January 02, 2012, 17:10:38 pm
Ah bene bene buono a sapersi :)
Buon lavoro allora ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: metal storm on January 08, 2012, 13:08:44 pm
finalmente sono riuscito a leggere tutto.

i complimenti di prassi per lo stile nella scrittura li salto a piè pari, sono scontati quanto meritatissimi.

quello che mi è risalito alla mente è invece la nostra breve conoscenza, e l'approccio breve e concreto al Pukulan.

raramente ho provato una tale sensazione di inadeguatezza come quando ho avuto la fortuna di potermi allenare con il tuo gruppo.

ricordo tutto, dal riscaldamento ai lividi finali... e soprattutto la vostra disponibilità, nello spiegare, spiegare e rispiegare, oltre che di mostrare.

in bocca al lupo e, se ne hai voglia e te la senti, finisci il tuo racconto.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on January 08, 2012, 21:18:56 pm
1- differenze tra madura e pecutan?
2- hai poi conosciuto l' anima del tuo kris?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ragnaz on January 09, 2012, 00:10:08 am

2- hai poi conosciuto l' anima del tuo kris?

Quoto! anch'io son rimasto curioso di sapere del kris :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on January 09, 2012, 14:15:54 pm
2- hai poi conosciuto l' anima del tuo kris?

sei un cazzone!!!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on January 09, 2012, 15:00:12 pm
Why?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ragnaz on January 09, 2012, 15:04:40 pm
2- hai poi conosciuto l' anima del tuo kris?

sei un cazzone!!!

Beh se è così siamo almeno in 2 :D :P
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on January 09, 2012, 15:33:24 pm
Why?

mi sembrava una battuta, che lo stessi coglionando con simpatia.. pensavo che non potessi essere serio... e invece mi sa proprio che potevi
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on January 09, 2012, 17:57:57 pm
Why?

mi sembrava una battuta, che lo stessi coglionando con simpatia.. pensavo che non potessi essere serio... e invece mi sa proprio che potevi

Poteva, poteva... sei uno zozzo materialista, Happo.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: happosai lucifero on January 09, 2012, 18:29:21 pm
:D sì, lo sono. vorrei fare dell'ironia, ma sarebbe fuori luogo
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on January 10, 2012, 10:27:54 am
 :D

l'anima del mio kris non mi caga manco di striscio...  ;)

la differenza tra Madura e Pecutan è in una sorta di evoluzione.
Accenno a grandi linee..
Il Madura era quello di Pak Houssein, trasmesso a Pak Flohr.
Pak Flohr 'diffuse' il Madura e nel vecchio modo.
A un suo allievo - Hans vanden Broek -  fu dato in modo più strutturato e data l'enfasi posta sui colpi frustati fu chiamato Pecutan.
Attualmente il Pukulan Madura/Pecutan è diviso in diversi rami.
Chi ha Jurus, chi non ne ha, chi ne ha più, chi meno, chi insegna con + struttura e chi con meno.
Alcuni tra loro sono in buoni rapporti.
Altri si tollerano e nulla più...

P.S.
GRAZIE Storm  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: metal storm on January 10, 2012, 19:09:52 pm
Non mi devi ringraziare Claudio... quello che penso dico  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on January 11, 2012, 19:25:32 pm
Claudio sono in crisi d'astinenza , scrivi qualcosaaaa  ;D ;D ;D ;D
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on January 12, 2012, 09:30:29 am
PARTE XX

… la notte degli spiriti

Sapevo che uno dei ricercatori di arti del sud est asiatico era questo Draeger.
Comprai il libro come seconda scelta, non essendo specifico ma un lavoro generico. Comunque discretamente compilato. Buona sezione dedicata alle note e alla bibliografia. Buona soprattutto sulle arti marziali cinesi e giapponesi. Meno su quelle tailandesi, birmane, pakistane, indiane e indonesiane. Molto meno su quelle filippine. Conoscendole in modo più approfondito e avendo letto altro materiale in lingua inglese sapevo che la fonte dalla quale era stato preso il materiale riguardante il Kali-Ecsrima filippino non era più considerato all’altezza da molti esperti.
Fonte unica, tra l’altro. Un po’ poco. Un vecchio libro scritto nel 1957. Smentito poi in vari punti.
Non sapendo se la stessa sorte fosse toccata a quelle indonesiane, mi informai su usi e costumi delle arti marziali indonesiane, sulle armi, sugli stili, tentando di avere un’infarinatura generale dell’argomento.
Diverse pagine erano dedicate al kris. Accenni storici, disegni, sezioni e descrizioni della forgiatura e delle caratteristiche generali dell’arma.
Un buon punto di partenza, poteva servirmi per una interessante lettura oltre al resto del materiale reperibile in rete e da prendere quindi con le dovute ‘molle’.
Avevo sempre preso sottogamba il kris, o keris, come arma. Avevo letto e sentito che nello scontro tra pirati e culture diverse si usava colpire il kris con lame più grosse e pesanti tra la parte alta della lama e il manico, riuscendo così a romperlo facilmente rendendolo inutilizzabile. Per me il kris era quello del sud delle Filippine, dell’isola di Mindanao. Una vera e propria spada per potenti fendenti. Grande più del doppio dei kris indonesiani e malesi. Ma ora quell’oggetto acquisiva via via nuovi significati e l’aspetto marziale era l’ultimo a interessarmi. A mano a mano che leggevo e me ne interessavo scoprivo quanto fosse interessante l’oggetto in sé. I materiali, la manifattura, il disegno, le sezioni, la forma, le decine e decine di modi per chiamare la stessa cosa nelle diverse zone e i numerosi nomi dati alle varie sezioni dell’arma. Non era un semplice oggetto, ma un gioiello, qualcosa di sacro e come tale andava affrontato.
Principalmente un kris è composto da più parti.
Escludendo il fodero, considerato un’opera d’arte a sé e fatto principalmente da due parti: il corpo del fodero (batang o pendok), ossia dove alloggia la lama, che può essere di legno, di bronzo, quando era utilizzato come protezione, ma anche d’argento o oro con diamanti.
Nella parte alta, all’imboccatura, v’è una sezione trasversale più o meno allungata che generalmente ha la forma di una nave o vascello (sampir o warangka). I materiali posso variare dal legno, all’avorio, al corno di bufalo o al fossile.
L’arma vera e propria ha un’impugnatura (ukiran, ulu) che può generalmente essere lavorata e recare incisioni in legno, avorio, corno, oro. Le forme dell’impugnatura differiscono in base alle aree geografiche dell’arcipelago, dando luogo ad una infinità di varianti più o meno pregiate.
Tra impugnatura e lama v’è un anello (mendak, penongkoh) in metallo più o meno prezioso che fa a sua volta da unione tra impugnatura e un pomello metallico (selut) che precede e fissa la lama stessa.
L’anima del kris è la sua lama (mata kris). Dalla forma (dapur) serpentina o dritta. Può variare dall’essere quasi perfettamente dritta all’avere fino a circa venti ‘curve’. La lama può essere di vari tipi di materiali: ferro meteoritico contenente nickel e titanio, acciaio o più di essi mescolati.
La base della lama (gaja) ha una peculiare forma allungata e appuntita (aring) e fa come da guardia alla mano che lo impugna. Il lato opposto può variare nelle forme e nei disegni, ricordando la proboscide di un elefante o recare altri disegni caratteristici quali forme di serpenti o draghi fino all’essere perfettamente dritta. Ogni singola parte del kris è talmente curata e lavorata, da quelli più preziosi a quelli più semplici, da renderlo quasi sempre una vera e propria opera d’arte unica.
Ciò che Walter mi disse di fare con il succo di limone riguardava il tirar fuori il pamor dalla lama.
Tradurre termini nati in un’altra lingua e che sono così caratteristici di oggetti di altre culture è sempre rischioso. Pamor può avere diversi significati. Può riguardare il materiale della lama, i disegni e le venature formate dal metallo o dai più metalli con cui è stata fatta. Dal tipo di pietra e dal suo disegno originario. Ogni disegno è unico, ogni venatura è irripetibile e non programmabile come risultato, colore o sfumatura. Non possono esistere, quindi, due kris uguali. Il pamor di un kris è considerato un dono di Dio. Ma pamor può essere anche la forma o le striature impresse o intagliate nella lama. Come una vera e propria serie di impronte digitali dell’oggetto. Verticali, orizzontali, colorate in mille sfumature, più o meno brillanti o riflettenti luce, il pamor parla e comunica al proprio possessore o a chi lo ha creato. Il termine è anche usato per indicare la manifattura e il materiale della lama.
Lavando il mio kris con il succo di limone avrei dovuto non solo pulirlo e liberarlo dalle impurità del tempo e dalla sporcizia, ma rendergli omaggio. Come salutarlo.
Approfondii il discorso con Walter che gentilmente mi diede tante altre informazioni a riguardo.
Mi spiegò ad esempio che il kris, appena terminato, veniva lavato con arsenico, succo di limone e sale anche per far risaltare al massimo e dare brillantezza al pamor. Ma non solo.
“Uno dei modi per scoprire se il tuo kris ha un valore in termini di materiale, manifattura, ossia chi lo ha forgiato e storia è tentare di capire se ti trasmette qualcosa impugnandolo”. Mi disse. “Cerca di capire se ‘senti’ qualcosa. Che sensazioni ti da. Brividi, ricordi, immagini, prurito, calore, formicolio o altro. Se ti da sensazioni piacevoli, sgradevoli o perfettamente nulla”.
“Non so Walter”. Dissi. “A essere sincero non ci ho mai fatto caso”.
“Ok, adesso lo sai. Prendi il tuo kris e mettilo sotto al cuscino quando dormi”, aggiunse.
“Scherzi?”, chiesi divertito.
Risposta negativa. “Puoi crederci o meno. Ma è uno dei modi tradizionali per capirlo”.
Decisi di testare queste teorie. Non mi impressionavano poiché scettico. Non avevo nulla da perdere.
“Ok. Lo farò! Spiegami come”.
“Certo. Come ti ho detto, prima di tutto lavalo col succo di limone. Toglierà le impurità, e se è un kris originale e di valore simbolico gli renderai omaggio. Renderai omaggio alla lama, a chi l’ha forgiata e allo spirito che vive in essa, se ve n’è uno”.
“Ok. Poi? Devo metterlo sotto al mio cuscino?”.
“Si. Vai a dormire. Prendi il kris e mettilo sotto al cuscino. Potrebbe darti informazioni, sogni, incubi, sensazioni in genere. O nulla”.
Aggiunse poi: “Oggi è Martedì. Hai mai sentito parlare di ‘jumat kliwon’?”.
“No, Walter. Non ho mai sentito queste parole. Cosa vuol dire?”.
“E’ una festività del calendario Giavanese”. Spiegò.
“ Diverso dal calendario Gregoriano o Islamico. Il jumat kliwon avviene ogni trentacinque giorni. E’ molto complicato da spiegare. Per capirci, corrisponde alla notte che precede uno speciale Venerì. Tra Giovedì e Venerdì notte. Tutti gli spiriti e la magia in genere sono più potenti in quella notte. Il kebatinan ne è favorito. Riti, offerte, tutto ciò che è spirituale in quella speciale notte è amplificato. Jumat kliwon è la notte degli spiriti”.
“Capisco”. Aggiunsi. Ma in realtà ci stavo capendo poco e nulla.
Ricordo di avergli fatto ripetere la stessa cosa due o tre volte.
D’altronde si chiacchierava in inglese e occasioni in cui mancava il termine anglosassone per esprimere concetti che dall’indonesiano erano sempre stati tradotti in olandese erano frequenti.
In fine aggiunse: “Jumat kliwon è questo giovedì notte. Prova!”.
Mancavano due giorni. Gli dissi che avrei fatto l’esperimento.
Mi organizzai con discrezione e pudore.
Arrivò il Giovedì.
Sotto occhi sbalorditi e compassionevoli di chi assistette alla scena, lavai il kris col succo di limone e il risultato fu duplice: la lama si pulì in modo considerevole. Da grigio sporco e opaco assunse un po’ di lucidità e brillantezza. Il manico in legno si pulì divenendo molto più chiaro.
Nulla di magico. Avevo appurato con certezza solo una cosa. Che prima di essere originale e autentico, il mio kris era soprattutto lurido.
E ora, la notte.
Per evitare di dovermi svegliare infilzato e dover correre al più vicino ospedale con stigmate da kris e relativa imbarazzante giustificazione, data la discreta punta del kris, lo avvolsi in un panno.
Lo posi sotto al cuscino e salutai il giorno chiudendo gli occhi e sperando in qualche segno.
Ricordo perfettamente cosa sognai.
Nulla!
Nulla al punto che al risveglio ci misi tempo a ricordarmi del mio esperimento notturno.
Ciò fu dovuto anche al fatto che il mio kris, sempre avvolto nel panno, era a terra accanto al letto.
Non sapevo da quanto fosse lì. Se fosse caduto subito o a metà nottata. Forse era quello il motivo per il quale non avevo ricevuto segni dal mio oggetto?
Sorrisi e lo raccolsi. Non ritentai l’esperimento. Ma nel caso, farovvi tosto sapere.
Tra quel Giovedì e quel Venerdì appresi due cose importanti sul mio kris: che non solo era lurido, ma cosa ancora più importante, soffriva di claustrofobia o era allergico agli acari da cuscino.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on January 12, 2012, 09:59:58 am
 :sur: :sur: :sur: :sur: :sur:
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on January 12, 2012, 12:47:58 pm
Claudio quanto da te espresso nell'ultimo intervento ha qualche legame con il kanuragan?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on January 12, 2012, 14:59:07 pm
anche se lo fosse.. non mi è mai stato espresso in questi termini.. quindi non confermo e non escludo.
 :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on January 12, 2012, 15:02:50 pm
  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on January 12, 2012, 17:18:20 pm
cos'è il kanuragan ?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: gyria on January 12, 2012, 18:30:23 pm
Che sia un caso oppure no, la sera stessa che portai a casa il mio Kris, lo lasciai sopra il comodino, di fianco al mio letto.Incubi tutta la notte.Sognavo di essere minacciato da centinaia di copie del mio kris.Dite che non sia un buon segno? :'(
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on January 12, 2012, 18:42:18 pm
eh No :-)
hai notizie del tuo kris?
un'altra cosa... la punta nn và mai indirizzata verso nessuno.. vedi tu..
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: gyria on January 12, 2012, 18:54:23 pm
Non molte.Il venditore, è un collezionista. Ma l impressione che ne ho avuto, è che volesse sbarazzarsene. A suo dire, non avendo info sul costruttore o su i precedenti possessori,stonava con il resto della collezione.è un Madura, lama dritta.Un amico restauratore,mi conferma che ha almeno un centinaio di anni, ma non è stato ben curato.La lama infatti,e rovinata,seppur tagliente. Il manico è in perfetto stato, ma mi è stato detto che non è strano che venisse sostituito. si notano i diversi strati di differenti acciai, sopratutto nella parte tra lama e manico,che a quanto pare, è la meglio conservata.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on January 12, 2012, 20:16:06 pm
cos'è il kanuragan ?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on March 01, 2012, 22:01:39 pm
Alfarano, se ci sei, batti un kriss.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on March 31, 2012, 13:47:11 pm
PARTE XXI

… outing

Solita routine a poche settimane dall’arrivo di Walter e amici a Napoli.
Allenamento in palestra, solito corso, ritorno a casa e al computer per definire gli ultimi dettagli prima della data.
In una delle ultime volte in cui io e Walter chattammo prima di rincontrarci e dell’allenamento vero e proprio, si discusse l’eventualità di dare in un forum nazionale italiano delle informazioni sul Pukulan.
Ma perché dare informazioni su un’arte che non ha interessi ad aumentare iscritti, affiliazioni o pubblicizzarsi a fini commerciali?
Me lo chiedo di continuo.
L’unica risposta che riesco a darmi è quella di far sapere che gruppi di allenamento così esistono ancora. Di non fermarsi all’idea della cintura, del diploma, del corso in palestra, della federazione, del passaggio di livello. Metodi alternativi esistono ancora.
Io e Walter, di comune accordo, decidemmo di pubblicare qualcosa sul Pukulan. Nulla di dettagliato. Una descrizione generale. Cosa fosse, quale fosse la mentalità, i concetti base, le caratteristiche principali.
“Ne sai abbastanza a livello teorico da scrivere qualcosa” – mi disse.
“Quel che non ti è chiaro o se hai altre domande da pormi sono qui. Falle”.
Avevo bisogno di organizzare le idee. Da dove partire, come introdurre l’argomento, i punti chiave, il corpo dell’articolo, un po’ di storia, le caratteristiche tecniche e la chiusura con alcune frasi tipiche che spiegassero la mentalità.
Ci vollero un paio di serate di qualche ora al computer per chiarire i vari punti necessari per ciò che volevo scrivere.
Alla fine il testo stava prendendo forma.
Utilizzai pezzi di ciò che Olivier disse nella parte introduttiva teorica al seminario a Milano. Parti di ciò che sentii in camera. Frasi sentite o lette da Walter nelle nostre numerose chiacchierate.
La parte più difficile era spiegare cosa fosse e cosa non fosse il Pukulan.
Quando un’Arte o un modo di interpretare il Pencak Silat indonesiano ha un nome così peculiare, profondamente radicato nella popolazione ‘indo’ e nella sua precisa terminologia, necessita di una spiegazione specifica. Soprattutto definire bene il concetto che Pukulan non fosse la parte dedicata alla specialità del colpire delle arti marziali indonesiane, bensì un gruppo di arti a sé. Un’enfasi data alla percossa ben diversa da quella degli altri stili. Un modo di interpretare il colpo tipicamente legato alla popolazione ‘indo’, così come lo stesso termine fosse tipicamente ‘indo’.
Arti marziali che utilizzano pugni, gomiti, calci e altri metodi di percussione, in contrapposizione o assieme ad altri metodi di combattimento utilizzanti spazzate, leve, proiezioni, sbilanciamenti e soffiocamenti, ve ne sono tante.
Ve ne sono tante stesso in Indonesia.
Perché il Pukulan differisce dalle altre arti, stili o sistemi che utilizzano anch’essi pugni, gomiti e altre tecniche di percussione?
Ma prima di analizzare il brano, approfondire le diverse parti o raccontare le reazioni, leggiamolo:

Cos'è il Pukulan...
Chi si interessa alle arti marziali del Sud-Est Asiatico, a quelle filippine, indonesiane o malesi, certamente avrà sentito parlare almeno una volta di un’ arte chiamata Pukulan.
Il Pukulan viene comunemente incluso negli stili di Pencak Silat indonesiano, anche se i suoi esponenti preferiscono più vedere la propria arte come un’unità a sé: “il Pukulan è Pukulan”.
Si dice che il Pukulan, nelle sue differenti versioni, sia Sundanese, ossia derivi dalla regione di Java Occidentale, lo si può trovare in alcune città di mare, in alcuni sobborghi di Jakarta (Pukulan Kemajoran e Pukulan Betawi, Mustika Kwitang), ed è presente anche nella regione di Java Orientale.
Nato e praticato nella comunità “indo” (gli indo-olandesi), un popolo spesso visto male sia dagli indonesiani sia dagli olandesi, odiati da entrambi, costretto a imparare a difendersi realmente.
Etimologicamente il termine Pukulan vuole dire “colpire”, dove Pukul sta per “colpo”, “percossa” e Pukulan indica “colpo multiplo”.
L’enfasi è dunque posta sul percuotere l’avversario, colpirlo più che sbilanciarlo, spazzarlo o proiettarlo. Queste ultime tecniche sono si presenti nel repertorio ma, prima di tutto, l’avversario va percosso.
Anche altre scuole di Silat usano il termine Pukulan, poiché anch’esse amano principalmente colpire l’avversario, tuttavia ciò ha generato una confusione. Una cosa è usare il termine Pukulan per indicare la tendenza a colpire l’avversario, un’altra è definire ciò che si pratica specificamente Pukulan in quanto arte a sé.
C’è una sostanziale differenza anche tra gli esponenti di Pukulan “americano”, ossia coloro che hanno imparato il Pukulan da esperti e maestri trasferitisi anni or sono negli Stati Uniti; e coloro che praticano il Pukulan indonesiano o olandese, rimasto incontaminato dalla commercializzazione avvenuta oltreoceano. Se si parla del Pukulan “americano” ad un esponente olandese, questi non avrà remore a classificarlo con il termine Permainan: “gioco”.
In effetti, i praticati olandesi praticano “old-fashion”, in modo costante, duro, discreto, totalmente al di fuori dei circuiti delle arti marziali. Si allenano in casa, in giardino, lontano da occhi indiscreti, accettando pochi esterni come discepoli. Non amano il pubblico, le riviste, i corsi collettivi, non cercano la fama attraverso di esso.
Soprattutto, per costoro il Pukulan non è un mezzo per fare soldi.
Non esistono certificati, corsi istruttori o rappresentanze.
Il Pukulan non è uno sport, uno svago, un’attività cui dedicare il tempo libero in una palestra.
Il Pukulan è uno stile di vita. E’ un’arte nata per sopravvivere, non per gareggiare, senza regole, se non quelle del Adat: le regole di comportamento osservate tra i praticanti.

Le Caratteristiche...
Ma quali sono le caratteristiche del Pukulan?
Il footwork e gli spostamenti sono caratterizzati da angoli geometrici cui, una volta assorbiti, il corpo seguirà automaticamente grazie al costante allenamento
Pukulan vuole dire iniziare a colpire e farlo per primi, ovunque, senza tempi morti, percuotere l’avversario fino a terminarlo.
Si inizia ad una distanza ragionevole, ma il Pukulan rende al massimo la sua efficacia nella medio-corta distanza.
Tra le armi preferite dei suoi praticanti ci sono i gomiti, le ginocchia, la testa, ma è permesso colpire in qualunque modo. L’avversario va annichilito nel più breve tempo possibile, incalzato da subito, tenendo costantemente l’iniziativa.
Per spiegare questo concetto i praticanti usano due motti che bene rendono la filosofia dell’arte:
“al batter d’occhi”: intendendo la necessità di colpire quando l’aggressore batte le ciglia; e “prima colpisci, poi chiedi”.
I colpi e le tecniche sono dirette, percorrendo sempre la via più breve. Inoltre, ciò che sta in alto colpisce alto e ciò che sta in basso colpisce basso. I pugni e le gomitate sono dirette alla parte alta del corpo dell’avversario, mentre i calci e le ginocchiate sono dedicate alla sezione inferiore, senza soluzione di continuità.
Si “entra” nell’avversario colpendolo e destabilizzandolo, costringendolo a cercare stabilità ed equilibrio…. E mentre è intento a farlo, si continua a tempestarlo di colpi.
Si cerca e si ruba lo spazio dell’avversario, gli si toglie il terreno ed una volta spostato si ripete la stessa cosa. Gli arti superiori e quelli inferiori lavorano in sintonia, collaborano ed una tecnica è la diretta conseguenza della precedente.
Si sfrutta qualunque movimento per colpire, mentre un arto carica il colpo l’altro colpisce per poi colpire anche mentre ritorna in posizione. Nulla va sprecato.
Nell’allenamento di base le parate vengono prese in considerazione, tuttavia nell’applicazione no, poiché il concetto di aspettare che l’avversario attacchi non fa parte della filosofia dell’arte.
Gli angoli che i gomiti usano per colpire sono infiniti, i calci colpiscono con movimenti diretti e massima potenza, sempre tirati per linea bassa, nelle gambe dell’avversario, per spezzare l’avanzata o aprire un varco e piazzare le tecniche di gomito.
Primario obiettivo è togliere aria all’avversario, combattendo in modo ravvicinato, per questo i gomiti sono importantissimi. Si colpisce in movimento, ci si muove sempre con uno scopo seguendo la regola di “un passo un colpo”, ciò, per aggiungere al colpo tutto il peso dello spostamento del corpo.
Le ginocchiate vengono portate dopo aver l’avversario sotto controllo, lo stesso si può dire per gli sbilanciamenti.
Ci si focalizza sempre sull’intero corpo avversario e tutto è un unico flusso di tecniche.
L’arte varia da persona a persona.
Pur seguendo le stesse tecniche e principi, c’è chi li attua “giocando” e chi entra e sfrutta gli stessi per terminare l’avversario. E’ l’approccio mentale a cambiare.
Ciò che conta, la vera arte, non viene trasmessa facilmente, ma solo al proprio studente o discepolo: la trasmissione avviene sempre da maestro a discepolo.
L’allenamento del Pukulan non è per tutti: duro, realistico ed estremo. I praticanti condizionano i propri strumenti come solo nei vecchi film si vedeva fare. Non risparmiandosi, fino a rendere le proprie ossa delle armi.
I praticanti di Pukulan cercano lo spirito della propria arte per tutta la vita, sapendo che non è semplice trovarlo. Vivono Pukulan, respirano Pukulan e mangiano Pukulan.
Prima viene il Pukulan, poi viene il Pukulan, poi viene il resto.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Rangio on March 31, 2012, 14:25:05 pm
Era ora...   :)

Poi ce lo fai il decalogo dell'Adat, sì?  :halo:

Quando dici che il Pukulan è uno stile di vita forse capisco che intendi, però mi piacerebbe sapere com'è cambiata la tua vita nel quotidiano tipo al lavoro, con gli amici, parenti, a fare la spesa, a guidare l'auto fino alle ore di riposo.
Te lo chiedo non per mera curiosità, ma perchè sento che la tua ricerca in una nuova forma d'arte (ma magari sbaglio) non sembra iniziata per spirito marziale, ma per ricerca di "verità" e non credo (ma magari sbaglio anche qui) che tu abbia trovato il Pukulan per caso...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on March 31, 2012, 17:08:05 pm
mi piacerebbe davvero molto provare il pukulan ...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: metal storm on April 05, 2012, 16:56:23 pm
mi piacerebbe davvero molto provare il pukulan ...

fa male... puoi chiederlo a qualcuno dei più anziani del forum (anziani di militanza intendo)  XD
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on April 05, 2012, 17:33:33 pm
allora se fa male riformulo :

mi piacerebbe davvero molto vedere il pukulan
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on April 05, 2012, 18:23:15 pm
il pukulan non si vede.....si sente  :D
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Luca Bagnoli on April 05, 2012, 19:28:41 pm
deh allora è l'ergastolo ..  :-X :-X
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 06, 2012, 16:49:16 pm
Poi ce lo fai il decalogo dell'Adat, sì?  :halo:
[/quote]

questa è la risposta più diplomatica e asettica che posso darti:

1) Credi in Dio, l'onnipotente Signore;
2) Rispetta il tuo insegante, i genitori e gli anziani;
3) Rispetta la verità e sii leale con gli amici;
4) Porta con onore il nome del Pukulan Pecutan e non abusare di ciò che hai appreso;
5) Vivi con forza, perseveranza e non essere arrogante.


mi piacerebbe sapere com'è cambiata la tua vita nel quotidiano tipo al lavoro, con gli amici, parenti, a fare la spesa, a guidare l'auto fino alle ore di riposo.
[/quote]

cambiata parecchio.
Inizialmente in peggio.
Stati nervosi in aumento, reattività, irascibilità. All'inizio ti senti a un metro da terra e vorresti spaccare il mondo.
Quel modo di allenarsi portato all'estremo ti elimina la paura del dolore e dello scontro.
Poi, con il tempo impari a allenarti anche più rilassato.
Tutte le cose che mi hai chiesto si riassumono in: gentilezza fin quando non mi si calpestano i coglioni.
E' totalmente cambiata la mia vita negli ultimi 3 anni...
Cambiata lavorativamente, come frequentazioni, marzialmente, come responsabilità, a livello familiare.. e non so se è il Pukulan a influire sul mio modo di vivere o il mio modo di vivere a influire sulla mia visione del Pukulan.
Diciamo che avendo concreti cacchi per la testa.. il Pukulan (inteso come impegno CON gli altri) ne è uscito molto ridimensionato
Il Pukulan, inteso in un certo modo, è un lusso per chi ha tempo e testa libera da dedicarvi.
Io e QUEL modo di intendere il Pukulan eravamo diventati incompatibili.
Quindi, una cosa è il Pukulan da me descritto in queste righe risalenti a due e più anni fa, un altro è il Pukulan ORA per me.

Distinguo il Pukulan come arte.. dal Pukulan come esperienza umana.
La prima è incomparabile, la seconda deludente

sento che la tua ricerca in una nuova forma d'arte (ma magari sbaglio) non sembra iniziata per spirito marziale, ma per ricerca di "verità" e non credo (ma magari sbaglio anche qui) che tu abbia trovato il Pukulan per caso...

tutto culo..  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ragnaz on April 06, 2012, 16:51:39 pm
Fa male, ma chi l'ha provato è ancora vivo e non ha subito danni irreversibili, per cui mi unisco a quelli cui piacerebbe provarlo :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 11, 2012, 15:30:55 pm

Poi ce lo fai il decalogo dell'Adat, sì?  :halo:

Pochi giorni fa ti risposi parlando di asetticità e diplomazia... ma il carburante della diplomazia sta finendo purtroppo...
Perchè mi si rompono le palle, di base...

Perchè si contattano persone che si allenano o che si sono allenate cn me e mi si mette in cattiva luce, dicendo che non sono in grado di... che sono inaffidabile, che mi sono allenato pochissime volte..
Le bugie sul mio conto davvero non me le aspettavo.... faccio così paura??
Se mi arriveranno altre voci passerò alle vie legali.
Ma non si ha nulla di meglio da fare?
Nella vita c'è la salute, LA FAMIGLIA, il lavoro...

Si stanno contattando persone che ho allontanato, per di più su consiglio diretto del mio ex referente, per riformare gruppi in Campania e dare punti di riferimento che non siano Claudio Alfarano..
Non può fregarmene di meno... si sputtanino pure... non farebbero che confermare i miei motivi di perplessità e con quello che sto venendo a sapere sugli sviluppi di ciò che amavo e ho amato, sull'evoluzione .... bah...... auspico si dimentichino il mio nome...

Mi alleno in casa mia, con chi voglio, in quello che voglio.... in tutta trasparenza. Tra l'altro da mesi ho interrotto per risolvere questioni familiari e lavorative assai più importanti..
Non voglio essere rotto le palle... non mi si provochi.
Sarebbe spiacevolissimo descrivere con minuzia di particolari tutti i retroscena, raccontare un bel po' di cose sull'ambiente, l'adat, i comportamenti, i personaggi, i dissapori interni lì in Olanda, quelli in Italia, le faide interne nel Pecutan, quelle nel Serak.. le nuove alleanze...  ecc ecc ecc.
Mi dispiacerebbe affossare un'arte che amo.
Spero mi si lasci in pace.
Non lo ripeterò più.
Sono cose che non ho interesse a fare.

Il mio insegnante mi disse che sono una bomba fuori controllo.
Rettifico...
Sono una bomba a tasto premuto
Ho altri cacchi per la testa, ma non mi si provochi... non mi si provochi... non mi si provochi... non mi si provochi...

mentalità e comportamenti da setta.... avevano ragione....
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Anducar on April 11, 2012, 18:28:09 pm
Ma esattamente che cosa è successo?
Le premesse, leggendo all'inizio del thread erano ottime...
Sembrava che fosse l'allegra famigliola felice...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 11, 2012, 18:35:51 pm
per comun disaccordo io non sono più in QUEL gruppo di Pukulan.
Non voglio ritirare fuori argomenti chiusi se non provocato.
Temo che nel giro di pochi anni la situazione diverrà peggio del WingChun.
Tutto qui, per ora...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Krypteia on April 11, 2012, 18:37:48 pm
Temo che nel giro di pochi anni la situazione diverrà peggio del WingChun.

Seee...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Anducar on April 11, 2012, 19:33:54 pm
per comun disaccordo io non sono più in QUEL gruppo di Pukulan.
Non voglio ritirare fuori argomenti chiusi se non provocato.
Temo che nel giro di pochi anni la situazione diverrà peggio del WingChun.
Tutto qui, per ora...

Fintanto che non aprirete scuole e vi farete pagare caro ogni movimento che allenate... non raggiungerete mai il wing chun. Ne dovee mangiare di pagnotte ancora... :=)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 13, 2012, 09:05:58 am
PARTE XXII

Naturalmente l’articolo suscitò curiosità, ulteriori domande e molte polemiche.
Avevo visionato siti in cui esperti italiani e internazionali avevano la loro lista di stili insegnati nella loro organizzazione. Stili, si. Uso il plurale. Curiosamente, se un esperto di karate diventa istruttore o maestro ne padroneggerà molto raramente più di uno, ma nelle arti marziali ‘nuove’, e per nuove intendo giunte a noi negli ultimi anni, legate al mondo dei corsi istruttori, si può essere esperti anche di cinque, dieci stili o arti marziali.

Ciò avviene poiché quanto più un’arte marziale è sconosciuta, tanto più sarà possibile approfittare dell’altrui ignoranza in materia per spacciarsi multi esperti. Succede così di leggere lunghe liste di personaggi esperti in decine di arti marziali differenti, miscugli da loro inventati per mascherare i loro deficit tecnici e spesso nomi di stili mai sentiti persino da esperti indonesiani. Se siete interessati a diventare istruttori o multi istruttori in diversi stili, vi basta sfogliare qualche rivista di settore, prelevare dalla banca un po’ di soldi, chiamare uno dei numeri dell’associazione che ha pagato la rivista per avere il suo spazio pubblicitario – siete voi a pagare quello spazio – e liberarvi per due, massimo quattro week end all’anno per apprendere il pacchetto arti offerto dall’associazione x, il cui maestro si sarà formato allo stesso modo o avrà inventato il suo mix o si sarà guadagnato la fama di esperto scrivendo qualche articolo sulla rivista oppure avrà ottenuto il diploma honoris causa grazie a qualche seminario organizzato per l’esperto internazionale di turno che lo ha subito promosso esperto e rappresentante per il paese y in virtù del o dei seminari organizzati per lui.
Il vero guadagno nelle arti marziali è questo. Quello dei seminari, quello dei corsi istruttori. L’attività in palestra rende ben poco e va subito integrata con manovrine del genere.

In queste arti esistono più istruttori che allievi e si leggono più pubblicità di corsi istruttori che corsi ordinari.
La qualità? Ma se ti insegnano dei minestroni da loro inventati, per di più giù in arti a molti sconosciute, chi potrà mai sindacare?
Succede poi che gli allievi più anziani ed esperti col tempo e per qualche motivo si stacchino dall’associazione e fondino la loro nuova organizzazione. E via con nuovi corsi istruttori.
Tornando a noi, questi personaggi usavano il termine Pukulan come semplice settore all’interno del loro stile oppure per indicare genericamente il colpire l’avversario. “La nostra parte di Pukulan”, “il nostro settore di Pukulan”, “oltre alle leve e alle proiezioni usiamo anche colpi (Pukulan)”. Frasi così abbondano. Ma non solo. Accanto al termine Pukulan alcuni hanno aggiunto loro nomi, interpretazioni e versioni personali.

Come è normale che fosse, il nostro articolo aveva dunque smosso un po’ le acque e tanti pesciolini si erano sentiti tirati in causa. Ciò è dovuto anche al fatto che nell’ambiente è risaputo che il Pukulan vero e proprio sia un’Arte dura. Che alcuni stili di Pukulan siano efficaci. Ma ciò è sempre dovuto a come ci si allena, non a come si chiama la propria arte.
Parte della polemica e delle critiche al nostro articolo vertevano sulla differenza fatta tra Pukulan e Permainan (gioco).
Per un praticante di Pukulan il Permainan è la capacità e l’abilità raffinata di ‘giocare’ con il corpo e l’equilibrio dell’avversario. Una specialità altamente sofisticata e difficile da applicare. Per poterlo fare è necessario conoscere perfettamente e intuitivamente le meccaniche e trovare sempre la propria giusta posizione mentre si agisce sul punto debole della posizione dell’avversario. Permainan non è un termine dispregiativo. Non se lo si intende nei confronti di chi dice di praticare Pukulan e invece si produce unicamente in entrate, proiezioni, sbilanciamenti, ossia la parte più soft delle arti marziali indonesiane. Soft ma importante. Poiché anche colpire duramente e applicare tipiche entrate di Pukulan vero e proprio su un avversario sbilanciato mediante la capacità di utilizzare il Permainan è naturalmente più sicuro, ma anche più efficace.

Il Permainan è dunque un elemento essenziale del repertorio del praticante di Pukulan. Ma vedere un praticante di Silat che applica tecniche e si allena non secondo gli standard cui un praticante di Pukulan è abituato susciterà facilmente frasi tipo: “quello è Permainan!”.
Per concludere: il Pukulan include il Permainan, ma non viceversa.
Il Permainan è spettacolare, divertente, facile da insegnare ma non da applicare.
Ottimo per i video, per i seminari, per i corsi ordinari, per i gruppi numerosi, per le donne.
Anche il termine “Silat americano” utilizzato nell’articolo non suscitò le simpatie di alcuni.
Pazienza. Resta il fatto che Pukulan praticato come si pratica in Olanda non è presente in America e neanche più in Indonesia. Quel genere di Pukulan è tipicamente ‘indo’. Praticato in Olanda in gruppi ristretti e non potrebbe essere altrimenti.
Ma pochi sanno tutto ciò e l’ignoranza permetterà sempre di giocare sui termini.
Ecco il perché dell’articolo.
Molti potranno dire e affermare di aver visto o praticare Pukulan fin quando non avranno visto o praticato con un vero praticante di Pukulan.

E a me ciò stava per succedere. Il primo italiano che aveva accesso al Pukulan olandese.
Non qualche visita e qualche allenamento sporadico di qualche rudimento come in seguito appresi aveva fatto il direttore dell’associazione in cui militavo e che tutti credevamo ne fosse esperto o almeno esponente e membro.
Il Pukulan. Studiarlo, allenarlo, assimilarlo nelle cellule, dalla prima all’ultima.

Il viaggio stava per avere inizio...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Wa No Seishin on April 13, 2012, 09:35:05 am
nelle arti marziali ‘nuove’, e per nuove intendo giunte a noi negli ultimi anni, legate al mondo dei corsi istruttori, si può essere esperti anche di cinque, dieci stili o arti marziali.

Ciò avviene poiché quanto più un’arte marziale è sconosciuta, tanto più sarà possibile approfittare dell’altrui ignoranza in materia per spacciarsi multi esperti. Succede così di leggere lunghe liste di personaggi esperti in decine di arti marziali differenti, miscugli da loro inventati per mascherare i loro deficit tecnici e spesso nomi di stili mai sentiti persino da esperti indonesiani. Se siete interessati a diventare istruttori o multi istruttori in diversi stili, vi basta sfogliare qualche rivista di settore, prelevare dalla banca un po’ di soldi, chiamare uno dei numeri dell’associazione che ha pagato la rivista per avere il suo spazio pubblicitario – siete voi a pagare quello spazio – e liberarvi per due, massimo quattro week end all’anno per apprendere il pacchetto arti offerto dall’associazione x, il cui maestro si sarà formato allo stesso modo o avrà inventato il suo mix o si sarà guadagnato la fama di esperto scrivendo qualche articolo sulla rivista oppure avrà ottenuto il diploma honoris causa grazie a qualche seminario organizzato per l’esperto internazionale di turno che lo ha subito promosso esperto e rappresentante per il paese y in virtù del o dei seminari organizzati per lui.
Il vero guadagno nelle arti marziali è questo. Quello dei seminari, quello dei corsi istruttori. L’attività in palestra rende ben poco e va subito integrata con manovrine del genere.

In queste arti esistono più istruttori che allievi e si leggono più pubblicità di corsi istruttori che corsi ordinari.
La qualità? Ma se ti insegnano dei minestroni da loro inventati, per di più giù in arti a molti sconosciute, chi potrà mai sindacare?
Succede poi che gli allievi più anziani ed esperti col tempo e per qualche motivo si stacchino dall’associazione e fondino la loro nuova organizzazione. E via con nuovi corsi istruttori.

Bravo bravo bravo...

...posso riciclare questo estratto?
(a firma Claudio Alfarano, ovviamente)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 13, 2012, 11:04:01 am
Go Baby...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ale_ale on April 13, 2012, 11:33:58 am
Parte della polemica e delle critiche al nostro articolo vertevano sulla differenza fatta tra Pukulan e Permainan (gioco).

molto interessante la distinzione che hai fatto fra le due "parti di studio", se così si può dire.  :)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 24, 2012, 17:05:10 pm
Queste righe erano datate 3 Ottobre 2009
Lo stimolo venne meno
Due settimane prima io e il mio compagno di allenamenti di Napoli ci allenammo per l'ultima volta con Walter e gli altri a San Salvo,
Da allora non ho più scritto nulla sull'argomento.
5 mesi dopo, in seguito a incomprensioni, ci fu la rottura bilaterale e la separazione.
Decisione saggia, ne sono + che mai convinto.

Ma il racconto non finisce qui.
Ho un editore interessato.
A breve il resto ;-)

Nel frattempo... chi passa per Napoli e vuole allenarsi può contattarmi...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Shashka on April 24, 2012, 17:30:04 pm
Mille grazie!
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on April 24, 2012, 17:31:32 pm

Nel frattempo... chi passa per Napoli e vuole allenarsi può contattarmi...
Ma tu non l' hai mica finito il sistema...
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 24, 2012, 17:34:51 pm
e che vit'e'mmerd'...
mi capita di dare pugni e lasciarli a metà...
Mi toccherà di andare da qualche mio ex allievo qui in campania e pregare di mostrarmelo... 
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Ethan on April 24, 2012, 20:15:48 pm
Spoiler: show
se l'italiano non inganna, un mezzo pugno è na pugnett   ;D


qualche volta dobbiamo buttar giù un mezzo allenamento allora  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on April 25, 2012, 09:23:47 am
a disposition  ;)
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Prototype 0 on December 11, 2012, 20:15:23 pm
Bè? Non aggiorniamo più?
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on December 12, 2012, 12:26:47 pm
forse si... sto scrivendo altro al momento e sono assorbito da sta cosa.
Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: Claudio Alfarano on July 12, 2013, 15:46:51 pm
Credo nel pukulan, sia nello spirito dell'arte sia tecnicamente e non vedo un futuro roseo. E' una mia opinione e spero di sbagliarmi.
Tutto cominciò con Napoli. Si era in 4....

Title: Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
Post by: UBuroni on July 13, 2013, 10:17:33 am
Quando i numeri si allargano, il rischio di avere un futuro non roseo aumentano ....