IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan

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Offline Ale_ale

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #75 on: May 20, 2011, 11:10:22 am »
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Un paio di volte ho pensato "ahia! che male"  :'(

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #76 on: May 23, 2011, 09:57:22 am »
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PARTE XII – "Questa è... struttura!"

 

Sveglia all’alba. Umidità a grappoli. Aria fredda e l’appuntamento a metà strada tra l’albergo e la vicina casa di Alberto. Si parte.
Arrivammo al palazzetto quasi tutti assieme. Alcuni erano già lì in attesa. Gli olandesi in macchina con il direttore tecnico e moglie.

Il palazzetto si riempì subito di tutti i partecipanti, gli spogliatoi presi d’assalto per accaparrarsi un posto per le giacche e via subito nel campo di basket a scaldarsi. Le scarpe sarebbero state tolte all’ultimo momento. Un divertito e compassionevole sguardo ai partecipanti intenti a indossare alla meno peggio il loro Sarong appena acquistato e il secondo giorno di allenamento iniziò con il medesimo riscaldamento condotto da Anand.

Alberto, Emilio, Walter e Olivier chiacchieravano attorno al diagramma formato a terra col nastro adesivo. Alberto chiedeva delucidazioni compiendo piccoli passi sulle linee mentre Olivier gli dava indicazioni con la mano seguendone linee e angoli.

Sarò breve.

Ripetemmo i Jurus visti il giorno prima e vedemmo qualche nuovo colpo a vuoto.

Ci posizionammo su un’immaginaria linea retta. Le ginocchia indicavano un angolo maggiore a 90° confronto alle spalle. Le gambe ben piegate. Dalla ‘Quattro’ alla ‘Cinque’.

Diamine che posizione scomoda e dura da tenere. “Come si fa a combattere da qui?” pensai. Eppure l’avevo vista eseguire in modo così naturale e semplice appena poche ore prima nello stretto spazio della camera.

“Questo è ‘Cinque’!”. Esclamò ad alta voce Walter.
Mi tornò alla mente la frase di Morpheus che introduceva un inesperto Neo al programma di spiegazione di cosa fosse Matrix: “Questo è … Struttura!”.

Effettivamente la ‘Cinque’ aveva una struttura complessa.

Partire dalla ‘Quattro’ ruotando così tanto il busto e mantenere allo stesso tempo le ginocchia in direzioni opposte e aperte era scomodo, complicato e richiedeva controlli e una consapevolezza corporea spropositata. “Non si può combattere e avere sotto controllo tutti questi parametri”, pensai.

“Ieri abbiamo visto un po’ come si cammina”, disse Walter, “oggi vediamo come si affonda nell’avversario. La ‘Cinque’ si usa per finire. Ma non solo, mi ci posso anche spostare ed è una posizione che mi permette di avere sotto controllo tutta l’area circostante a 360°”. Mosse le braccia in tutte le direzioni, senza spostare i piedi si girò di 180° e coprì gli angoli rimanenti. “Questa posizione/spostamento richiede molta molta pratica e molto allenamento. Ci vuole tempo per riuscire a sentirla comoda e naturale”.

La ‘Cinque’ è un cuneo. Una freccia giunta a bersaglio e con la punta conficcata in profondità.

Piedi, ginocchia e punto d’impatto sono sulla stessa linea. La ‘Cinque’ è una struttura architettonica regolare e coerente in cui la metà inferiore è rivolta in una direzione e quella superiore spostata di almeno 90°. Gradi che permettono il caricamento dei colpi in una direzione e in un’altra, passando in un lampo attraverso la ‘Quattro’, ad un’altra ‘Cinque’ sulla parte opposta senza interruzioni. Nocche-gomiti-nocche, gomiti-nocche-gomiti, mentre le spalle ruotano e girano di 90° su 90°. Il ginocchio ‘spia’ il ginocchio avversario, il mutare d’altezza ‘chiede’ all’avversario di cambiare equilibrio. Non conta cosa si colpisce ma come. Si segue la linea. Se sulla linea c’è un avambraccio, va bene quello. Se c’è il dorso di una mano, non si va per il sottile. La freccia vi passa attraverso diretta al bersaglio primario, bucando e passando attraverso tutto ciò che trova sul suo cammino. La meccanica deve essere perfetta, le linee rispettate, il peso corporeo perfettamente bilanciato, le gambe due pistoni che salgono e scendono aggiungendo peso ai colpi.

Walter chiamò Anand a fargli da assistente. Ci guardammo prevedendo nuovi impatti. Così fu.

Walter eseguì una serie di violente entrate nella guardia di Anand, colpendo di braccia o gomiti e contemporaneamente impattando tibia su tibia con una determinazione che sapeva di sadomasochismo. Ancora una volta, il sonoro fu gestito da noi partecipanti. Ci lamentammo noi per Anand. Come era possibile assorbire quelle botte? Come era possibile partire pensando di andare a sbattere ossa su ossa in quel modo, fregandosene, noncuranti del dolore. Quanta determinazione, rabbia o aggressività erano necessarie? Quanto questi attributi potessero essere allenati e coltivati?

Walter spiegò: “Quante persone sono allenate a entrare così e sopportare tali impatti? Noi lo sappiamo, lo accettiamo. Sappiamo che se il dolore non viene gestito e usato assorbe la mente. Non è possibile pensare ad altro. Se ne viene fagocitati. Ma se sono allenato lo gestisco, lo uso, lo sfrutto, ne prendo forza, mi carica. Non mi blocca, anzi, mi spinge a dare ancora di più. Per questo è necessario allenarsi con realismo. E si arriva a un punto in cui sai che non puoi ricevere più dolore di quanto tu non sia già abituato a gestire. Un punto in cui il dolore ti insegna. E’ il tuo alleato. Non lo temi più. Ma a tutto ciò si arriva in modo progressivo, o se ne ricevono danni”.

Anche Alberto fu chiamato a fare da assistente. La malaugurata idea di fare una domanda diede spunto a Walter di usarlo come cavia. Sapeva che gli sarebbe entrato nella tibia utilizzando la ‘Cinque’. Alberto, il primo istruttore italiano del leggendario Dan Inosanto, lui, uno dei cinque membri mondiali della famiglia di un’esclusiva Arte indonesiana, colui che per primo scrisse articoli su tali stili marziali, uno dei primi italiani a introdurre le arti marziali filippine e indonesiane e l’arte di Bruce Lee in Italia, il membro fondatore di una delle più importanti associazioni per le arti marziali del Sud-Est Asiatico, nonché la prima associazione in Italia storicamente e numericamente … indossò impavidamente un ingombrante, imbottito paratibie da portiere da Hockey sul ghiaccio. Preoccupato in viso, alzò le mani mimando la richiesta di non esagerare nell’entrata. Walter sorrise. “No, no. Don’t worry!”. Mentì! Indossare quegli affari è per un praticante di Pukulan un invito a nozze. Rappresenta la possibilità di poter testare il proprio impatto preoccupandosi meno di procurare danni al compagno di allenamento.

In effetti Alberto, poi seppi, aveva già saggiato la tibia di Walter in un’altra occasione. Quando, conoscendolo da poco, aveva ingenuamente in tono di sfida chiesto a Walter, decantando il suo Jeet Kune Do: “Ma se faccio così, tu che fai?” e appena s’era mosso compiendo un passo in avanti, Walter gli aveva fulminato la tibia a perenne ricordo

Sconcertati e preoccupati ci accingemmo a provare la ‘Cinque’. Difficile e ostica da eseguire. Complicato da tenere l’equilibrio. Non esagerarono nelle applicazioni, le spiegazioni furono più tecniche e meno dure, avevano già ampiamente dimostrato le loro capacità di impatto il giorno prima.
Non facemmo in tempo a tranquillizzarci che passammo a vedere come nel Pukulan si para un pugno. Ma non avevano detto che nel Pukulan non ci fossero parate?

L’istruttore di Assisi fu scelto per assistere Walter.

Un rapido passo in avanti e un diretto anteriore destro. Walter si spostò di pochissimo anticipando il colpo e usò l’osso del polso nell’interno dell’avambraccio del malcapitato. Un colpo secco e netto, pochissimo caricamento. Una leggera frustata. Un suono sordo. L’istruttore di Assisi si piegò su se stesso mantenendosi e strofinandosi il punto di impatto. Si riprese dopo alcuni secondi. In quel frattempo Walter avrebbe potuto colpirlo altre cinque volte e finirlo. Si provò di nuovo. L’istruttore girò il polso offrendo la parte interna del polso, tentando un pugno verticale. Walter gli spiegò che in quel caso avrebbe colpito i nervi, causando più danni, e che sarebbe stato meglio sopportare il dolore all’osso del braccio invece di ricevere un forte trauma ai nervi. Questa volta Walter diede un’angolazione diversa al suo colpo. Il braccio dell’assistente volò in una diversa direzione.

“Se avete notato”, spiegò, “ho usato una linea diversa questa volta. Posso colpire su diverse linee e ognuna mi da una diversa reazione del mio avversario, offrendomi nuovi bersagli”. Lo colpì con un leggero impulso verso il basso, l’assistente si abbassò per il dolore portando giù la testa. Le nocche di Walter erano già pronte lì ad aspettarlo. Lo colpì ancora dall’interno, l’assistente allargò il braccio facendo compiere una rotazione all’intero corpo. Walter incalzò d’incontro sull’altro lato. “Posso entrare più dentro tagliando”, aggiunse. L’istruttore attaccò ancora e Walter spostandosi leggermente più dentro colpi tagliando la linea verso il bicipite dell’assistente, schiacciandolo verso il basso. “Sono io a decidere e pilotarlo. So già che reazione avrà e solo allenandomi e facendogliela sentire, almeno un po’ ogni volta, testerò i miei colpi, le sue reazioni e le linee che verrà a coprire”.

Ringraziò l’istruttore di Assisi il cui braccio copriva varie sfumature di rosso e iniziammo a praticare quell’entrata. Un po’ tutti sentimmo sia Walter, sia Anand, sia Olivier. Ma ciò che più mi colpì fu che quando fu lui ad offrirmi il suo braccio per farsi colpire, in effetti fu lui a colpire me. Fui io a provare dolore, costringendomi a fermare il test al terzo colpo violento. Terzo colpo violento per lui. Per me erano stati violenti anche i precedenti, ma lui insistè che non lo fossero ancora abbastanza. Colpii con tutta la forza e andai a scontrarmi contro un blocco di cemento immobile. Non fui capace di spostarlo di un centimetro. Anzi, spostando di pochissimo il punto di impatto mi anticipò, rubandomi il tempo, prendendo il mio ‘timing’. Mi parve immobile, eppure esercitò un’impercettibile rotazione del polso. Gli bastò per essere lui a colpire me e non io a colpire lui. Pensai: “Come si ferma un tipo del genere che non prova e teme dolore, che fa male quando colpisce e fa male anche quando viene colpito?”.

Anand ci mostrò come massaggiarci a vicenda per far riassorbire prima gli ematomi. Anche quello aveva il suo verso e la sua angolazione. Il massaggio fu quasi più doloroso del dolore in sè.

Quando venne da me e mi cinse il braccio iniziando a stringere e risalire ruotando i polsi e portandosi dietro metà dei miei peli del braccio disse: "Ci diamo dolore, ma ci curiamo anche a vicenda".

Ero ancora assorto in quei colpi rimbalzati su Walter quando Alberto chiese a Walter di mostrare alcune tecniche da terra.

Ci fermammo, ci disponemmo in riga e Walter si appoggiò a terra come se avesse appena conquistato la prima fila in riva al mare. Sguardo in alto, come a godersi il sole, braccia tese indietro e gambe piegate, una a terra e l’altra a ginocchio sollevato.
Anand avrebbe interpretato il ragazzo geloso e incazzato della tipa alla quale Walter aveva fatto un fischio e commentato lo splendido culo.

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #77 on: May 30, 2011, 12:25:48 pm »
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 PARTE XIII - Non Meno di Tre

Una breve spiegazione: “Non ci capita spesso di essere in queste posizioni. Il Pukulan è un’arte da combattimento in piedi. Molti stili di Silat adottano posizioni basse o preferiscono andare al suolo e portarvi l’avversario a causa del terreno. Se si è nella giungla e il terreno non è stabile, se è fangoso, se a causa della stagione delle piogge è piovuto eccessivamente e ogni passo potrebbe essere motivo di instabilità, allora il praticante di Silat va giù a combattere a terra”. Avevo sentito e letto a riguardo. Molte arti marziali non andrebbero isolate dal loro contesto. Come dicevo precedentemente, la base storica e culturale è parte integrante di un’arte. I movimenti lo sono. Quegli stessi movimenti hanno una storia, passata da padre in figlio, da maestro ad allievo. Le arti marziali hanno una struttura sociale e isolare le tecniche dalla cultura renderebbe ciò che andrebbe presa come una completa cultura guerriera in semplice ginnastica etnica.

Il contesto 'suolo' nelle arti marziali è fonte di polemiche da alcuni anni. Ciò è dovuto principalmente alla diffusione avvenuta a livello mondiale di un’arte altamente specializzata nel combattimento al suolo come il Jiu-Jitsu Brasiliano. L’errore più comune è pensare che un’arte specializzata nel combattimento al suolo possa eccellere solo in quello. In realtà un’arte che focalizza il combattimento principalmente a terra è costretta a raffinare i propri mezzi anche per portare l’avversario a terra. Persone che allenano il proprio repertorio in modo specifico per portare l’avversario a terra saranno persone allenate a capire come non andarvi. L’occhio sarà allenato a vedere tutti quei segnali utili a capire come andare a terra o come evitare l’atterramento. Le competizioni di Mixed Martial Arts, in un momento in cui il combattimento al suolo non era conosciuto dalla stragrande maggioranza degli artisti marziali, hanno evidenziato se non altro a livello competitivo l’importanza del saper combattere al suolo. Dopo alcuni anni il gap tra gli strikers (coloro specializzati nelle arti da percussione) e i grapplers (coloro specializzati nelle arti da lotta in piedi o al suolo) è stato eliminato e tutt’ora vige un certo equilibrio tra le due specialità, al punto che tutti gli atleti preferiscono integrare l’uno con l’altro ammettendo l’importanza dell’essere se non completi, almeno versatili.

Ma il problema è sorto altrove. Dove gli sport da combattimento, a causa della loro specializzazione e regolamentazione, come la Boxe, la Boxe Tailandese, la Kick Boxing o il Karate sportivo, non hanno sentito la necessità di integrare nel repertorio il combattimento al suolo, le arti marziali ‘pure’ da difesa che per anni hanno proclamato una certa superiorità sugli sport da combattimento si sono sentite spodestate dalla loro virtuale posizione di arti letali. Alcune di queste si sono inventate programmi di lotta a terra, basati su concetti errati e senza alcuna solida base di conoscenza di lotta al suolo, per attirare persone e darsi un’aria di completezza.

Quando dunque sento parlare di lotta a terra da parte di un’arte marziale non sportiva, affronto l’argomento con una certa circospezione e cautela.

In alcuni seminari dell’associazione avevo avuto modo di vedere e provare delle tecniche di uno stile di Pencak Silat originario dell’isola di Sumatra: l’Harimau, che nella lingua locale significa ‘tigre’. Movimenti eleganti e caratteristici, ma che di certo non mi avevano colpito per efficacia, realismo e facilità di applicazione.

Walter non stava per mostrarci come portare l’avversario a terra ne tantomeno come da una posizione in piedi si dovesse andare giù per combattere, stava per illustrarci alcune possibilità di difesa da terra su aggressore che ci carica da posizione eretta.

Era in una posizione estremamente comoda e rilassata, con un braccio appoggiato sul ginocchio della gamba piegata, l’altro braccio a fare da pilastro a terra. Una tipica posizione da spiaggia.

Anand si avvicinò rapidamente a lui per colpirlo e mentre compiva il primo passo verso Walter, una gamba schizzò verso la caviglia di Anand esattamente un attimo prima che il piede toccasse terra. Il tallone di Walter colpì la caviglia di Anand così violentemente che Anand, non trovando più il supporto della gamba e per scaricare il forte impatto, compì una mezza capriola in avanti. Non aveva assecondato la tecnica di Walter, l’aveva subita nel vero senso della parola. Walter non stava dimostrando una tecnica, l’aveva applicata al 100%. Si rialzò toccandosi la tibia col suo sorriso beffardo e di sfida e ripeté l’attacco altre due volte. Stessi risultati, solo piroette leggermente diverse, Walter lo colpì dall’interno spazzando o tirando la gamba dall’esterno. In tutti i casi, Anand era finito al suolo e Walter usando le braccia si era spostato rapidamente verso Anand che non aveva fatto a tempo a riprendersi dal capitombolo che si era ritrovato Walter che era risalito strusciando i malleoli e le tibie nelle cosce di Anand provocandogli dolore aggiuntivo ed era lì pronto con i capelli di Anand in mano e il gomito carico per il nuovo impatto.

Non solo il forte colpo subito da Anand mi aveva impressionato, ma anche quel rapido spostamento di Walter verso Anand. Aveva utilizzato entrambe le braccia per lanciarsi e usato una gamba a fare da supporto a terra per assecondare quel movimento e con un colpo di reni aveva spostato l’intero peso sul proprio assistente, causandogli ancora dolore e preparando il colpo finale di gomito dietro alla nuca o in pieno viso. Tutto nel breve tempo in cui Anand, appena caduto, rialzava la testa e si riaccorgeva di ciò che stesse accadendo.

Mostrò poi alcune varianti dicendo: “l’avversario è costretto ad avvicinarsi per venire verso di voi, ma lui ha solo due basi a terra, i piedi, mentre voi già a terra ne avete almeno quattro e se le vostre gambe sono rivolte verso l’aggressore avete la possibilità di colpire le sue gambe, i suoi pilastri, e allo stesso tempo avere il vantaggio di tenere la vostra testa lontana dai suoi colpi. Osservate bene e prendete il tempo. Colpite nel momento in cui sta per poggiare il piede a terra e il suo peso è avanti. A quel punto toglietegli la base. Anche in questo caso decidete voi dove indirizzarlo. Con il primo esempio l’ho fatto venire verso di me, il secondo, spazzandolo dall’interno l’ho spostato su un lato, il terzo sull’altro. In un modo o nell’altro lui andrà a coprire determinate linee. Sfrutto lo stesso diagramma per muovermi anche a terra. E nonostante io non sia in posizione eretta, continuo a pensare in termini di posizione/spostamento ‘Tre’, ‘Quattro’ o ‘Cinque’. Quindi, colpite i suoi pilastri, allontanateglieli e cadrà o scoprirà i testicoli o vi darà come bersaglio l’altra gamba. Mentre cade colpite ancora, appena a terra colpite ancora. Tutto ciò continuando a spostarvi verso di lui. Noi nel Pukulan usiamo la regola del ‘non meno di tre’. Ossia, quando decidete di colpire, in piedi o a terra, colpite l’avversario minimo tre volte”.

Provammo goffamente a ripetere quelle applicazioni. I tre olandesi girarono tra i partecipanti spiegando minuziosamente i dettagli, le varianti e le possibili finalizzazioni delle combinazioni.

Fu spettacolare vederlo muoversi a terra con quelle sue leve lunghe in modo così inaspettatamente rapido e agile, era nell’avversario prima che la vittima fosse a terra. Provò le tecniche anche su alcuni di noi. Si entrava nel suo raggio di azione e scattava fuori una gamba a togliere l’appoggio. Decisa e dura, nella tibia, nella caviglia, nel polpaccio o direttamente alla base del piede. Toglieva l’appoggio ed era impossibile non esserne sbilanciati, prima di accorgersi che non c’era più una gamba dove credevamo ci fosse stata, aveva già colpita l’altra rimasta d’appoggio e lui si era talmente tanto avvicinato da entrare persino con i gomiti nel menisco o nella rotula più vicina. Frustava con dita o nocche nei testicoli, artigliava dolorosamente l’interno con le dita delle mani e, incredibilmente anche con quelle dei piedi, stringendo la pelle quel tanto che bastasse a distrarre per il dolore mentre risaliva colpendo fino al viso dell’assistente di turno. Andava giù e si rialzava con una rapidità fuori dal comune. Mi resi conto che per muoversi in quel modo era necessario davvero tanto allenamento. Riusciva poi a tenere la sua testa ben lontana dai possibili colpi. Alcune combinazioni le attuò con una diversa strategia, non colpendo solo una gamba, ma contemporaneamente due. Allargandole in direzioni opposte. Vi riusciva lanciandosi tra entrambe le gambe dell’avversario e spazzandole nello stesso istante usando leve contrapposte, con il busto eretto riusciva poi a dare il colpo di grazia con un terzo colpo all’inguine o al ginocchio con dita, nocche o gomiti oppure colpendo ancora con un calcio. Non gli importava della eventualità di impattare osso su osso, lui era condizionato per farlo. Mi chiesi quanti anni e quanto tempo fossero necessari per raggiungere un tale grado di determinazione nel colpire, un tale grado di precisione a seguire quelle linee immaginarie che lui vedeva, quanto tempo per condizionarsi le ossa a quel livello e quanto tempo per superare completamente la paura del dolore o il dolore stesso.

Gli chiesi se il combattimento a terra fosse parte integrante di ciò che praticava e mi rispose che il Pukulan è principalmente un’Arte contundente da posizione eretta, ma che il suo maestro aveva studiato anche tecniche di ‘Minangkabau’.

Capii poco di quella risposta. Per me Minangkabau era un modello artigianale di Kerambit, una lama ricurva da combattimento della cultura indonesiana di probabile provenienza araba che porta sul manico un foro per infilare un dito. Ne avevo alcune e una in particolare aveva quel nome: ‘Modello Minangkabau’. Conosciuta anche con il nome di Kuku Macan (artiglio di tigre), Kuku Bima (artiglio di Bima). Alcuni erroneamente la chiamano la ‘lama di Java’. Ma è invece tipica dell’isola di Sumatra. In particolare, quel modello che possedevo prendeva il nome dalla etnia Minangkabau. Letteralmente quello del ‘bufalo vittorioso’ (da Minang: vittorioso; e Kabau: bufalo) è un popolo che vive sulle highlands della parte occidentale dell’isola di Sumatra. Deve il suo nome a un’antica leggenda di una disputa territoriale tra un principe locale e l’etnia Minangkabau. Uno scontro tra due bufali. Uno enorme e potente a rappresentare il principe e uno piccolo, bisognoso di latte materno e con lame affilate al posto delle corna a rappresentare il popolo Minangkabau. Si narra che il grande bufalo avesse lasciato quello piccolo avvicinarsi non considerandolo un pericolo e cercando un avversario alla sua altezza. A sua volta, il piccolo, scambiando quello più grande per la madre, vi fosse andato sotto per prendervi il latte e alzando lo sguardo in cerca di una mammella avesse sventrato il bufalo del principe. L’etnia Minankabau ha prodotto alcuni tra i più pittoreschi e affascinanti stili di Silat che vanno sotto il nome di ‘Silak Tuo’, tra questi l’Harimau (tigre), lo Sterlak, il Seni Silat e altri dal nome meno conosciuto.

I movimenti risentono della conformazione territoriale, delle caratteristiche tipiche della zona. Movimenti bassi, eleganti, colpi da posizioni accovacciati che richiedono molta pratica e allenamento. Quasi a pagare tributo alle caratteristiche fisiche e all’astuzia del piccolo bufalo vittorioso.

Al momento non sapevo le differenza tra arti di Java e arti di Sumatra.

Tra i vari stili di Silat indonesiano avevo sentito nominare solo alcuni nomi più famosi a livello mondiale. Famosi relativamente, poiché conosciuti solo dai praticanti di arti marziali indonesiane, che in confronto alle arti marziali giapponesi o cinesi sono solo una piccolissima parte.

Vedere combattere a terra con quella brutalità e rapidità, quei calci così decisi nelle articolazioni e quella capacità di rialzarsi a sovrastare l’avversario così velocemente, mi spinse a riconsiderare anche il mio punto di vista su alcuni stili di Silat, a patto che tutto, logicamente, venisse allenato nel giusto modo e con la giusta intensità. In definitiva non conta tanto cosa pratichi o cosa fai, ma conta piuttosto come lo fai, con che frequenza, con che realismo, quanto impegno e dedizione, in che condizioni mentali riesci a immergerti mentre ti alleni. Tutto ciò era quello che mi aveva impressionato in quei due giorni. Tutto, ogni forma di combattimento, poteva essere allenata così. Il bisogno di commercializzare gli stili, il vendere le arti da combattimento impacchettate e preconfezionate per un grande pubblico sminuiva e castrava il motivo per cui erano nate. Capii più profondamente quanto alcune arti, per il modo in cui devono necessariamente essere allenate, non fossero per tutti. Se non si vuole fare business, se non si cercano guadagni, se non si vuole diffondere alle masse, quello era il modo reale per allenarsi. Quella era un’arte marziale come doveva essere. E finalmente l’avevo vista. Ne ero stato testimone.

Il seminario si chiuse con alcuni Jurus di Olivier e Anand degli stili Cimande, Sebandar, una forma eseguita con Golok (machete indonesiano) da parte di Anand. Splendidi movimenti ma che mi sembravano anni luce dalla efficacia della semplicità del Pukulan.

Ma non mi interessava chiudere deconcentrandomi dal motivo del mio viaggio e della mia presenza lì. Volevo che mi rimanessero fotografati i movimenti del Pukulan in mente. Null’altro. Non volevo registrare null’altro.

Le sei ore della domenica passarono in fretta.

Dopo il saluto e i ringraziamenti da parte degli olandesi e di Alberto, le uniche immagini che mi rimasero della fine di quei due ultimi giorni furono Walter che parlava amichevolmente fuori dal palazzetto fumandosi una sigaretta in compagnia di alcuni partecipanti e il viso di Simone, il mio compagno di allenamenti di quei due giorni.

Dedico a lui i miei ricordi di quelle dodici ore di allenamento.

 

Una lunga malattia ha portato via uno dei ragazzi migliori conosciuti nel mondo delle arti marziali.

Un puro! Uno pulito!

Simpatico, disponibile, allegro.

Un pregevole atleta: duro, tecnico, gran combattente.

Ricordo ancora un suo pugno stampatosi sulla mia fronte...

Quel giorno lo vidi per l’ultima volta.

Non mi mancherà fisicamente. Le occasioni di incontro non furono così numerose.

Ma mi mancherà sapere che non è lì, su qualche Tatami o ring, a tirare pesante pur senza cattiveria con qualche malcapitato di turno......

Ciao Simone, riposa in pace…!
« Last Edit: May 30, 2011, 12:37:57 pm by Claudio Alfarano »

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Offline The Spartan

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #78 on: May 30, 2011, 12:43:26 pm »
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Mi unisco al ricordo di Simone, conosciuto poco più che bambino e con il quale ho invece diviso tante ore di allenamento e agonismo, fino al mio ultimo incontro proprio con lui.
Marzialista come pochi, andato via in silenzio e senza il tributo che avrebbe meritato.
YOU WANT SOME?COME GET SOME!
www.spartan-academy.jimdo.com

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"Ho tutto il giorno libero!"


The Guy - P.K. & Chris...rustici compari.

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #79 on: June 15, 2011, 11:27:20 am »
0
In attesa che Alfarano posti ancora il suo diario  :)


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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #80 on: June 15, 2011, 15:50:06 pm »
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PARTE XIV - DEJA VU


“Ti rispondo quello che ho già detto ad altri: non avete capito che quello che vi abbiamo fatto è stato un regalo”.

Ero perplesso.
Parlando e commentando il seminario, Alberto al telefono fu così che rispose alla mia domanda: “sarebbe possibile avere il video del seminario?”.

Un regalo? Ok, gli olandesi non ci hanno guadagnato, sono state pagate loro le spese, ma non mi sembrava aver ricevuto regali. Avevo visto una magnifica torta, l’avevo saggiata e poi era come se mi fosse stato detto: ok … piaciuta? Bene, perché non la mangerai mai più.

Continuai le mie lezioni in palestra. Parlai ai ragazzi descrivendo la mia esperienza a Milano. Comunicai loro i miei intenti: intensificare gli allenamenti, renderli più duri. Dopo aver visto quel modo di intendere le arti marziali non era più possibile continuare come prima.

Vedere e ‘sentire’ il Pukulan era stato per me un giro di boa.

Allenavo e insegnavo il Kali, il Jeet Kune Do, ripetevo tecniche e prendevo lezioni private di Brazilian Jiu-Jitsu, cercavo di approfondire le mie conoscenze marziali con la Muay Thai e con la sua versione tradizionale Mae Mai. Ma la mia testa era altrove. Facevo tutto ciò che ritenevo efficace, ma il mio cuore marziale era rimasto lì, in quella camera d’albergo, su quel campo di basket. Era in quello spirito di amicizia e allenamento fine a se stesso, quella fratellanza lontana da fini commerciali, quel sordo doloroso contatto. La saggezza dell’osso.

Siti, e-mail, recapiti, indirizzi. Degli olandesi in rete non vi era nulla.
Cercai, se non altro per testimoniare loro la mia stima e soddisfazione, anche a mesi di distanza.
Ne erano passati circa sei.

Sei mesi in cui periodicamente cercavo surfando nella rete.
Iniziai a documentarmi sul Silat, a leggere, scaricare articoli, stampandoli e leggendoli nel tempo libero.
Le uniche fonti reperibili sul Pukulan erano quelle americane. Mi documentai un po’ su cosa si facesse oltreoceano. Visionai video. Ma nulla era lontanamente simile a ciò che avevo visto.

Mi sentivo confuso. Lo chiamavano Pukulan, ma allora perché facevano cose così diverse? Calci alti, tipici di altre arti marziali, leve articolari. In realtà a Milano di leve articolari non ne avevo vista neanche una. Non riuscivo a trovare un riscontro tra il Pukulan visto in rete e il Pukulan visto dal vivo. Spazzate su spazzate e neanche una entrata reale come ne avevo viste e sentite di persona.

Era il solito Silat che mi aveva lasciato sempre tanto scettico.

Vidi un Silat diverso dagli altri in alcuni video di praticanti inglesi. Nulla di eclatante, ma bei movimenti. Preparati fisicamente, se non altro. La gran parte dei video di Silat in rete mostra persone lontane da una forma fisica decente, appesantiti e che si muovono di conseguenza, lenti, goffi, colpi preordinati, sequenza fasulle. Roba già vista in tante altre arti marziali. Solo eseguite peggio.

L’intensificarsi degli allenamenti aveva già dato i suoi frutti.
Alcuni allievi erano spariti. Altri ne avevano invece tratto nuovi stimoli.

Le mie ricerche nel campo delle Arti Marziali Indonesiane mi davano risultati contrastanti. Un mondo affascinante, misterioso, con vene esoteriche.
Dall’altro lato, i video: personaggi goffi, in sovrappeso, con Sarong improvvisati indossati alla maniera sundanese (Java Occidentale) e con in testa l’Ikat (foulard) indossato alla maniera Minangkabau (Sumatra), in pantaloni di felpa sfoggianti logo anche a coprire lo sfintere e calzerotti bianchi. Gente che palesemente aveva problemi a mantenere posizioni salde, che a terra era agile come ricci di mare. Video di Silat eseguiti con bastoni del Kali e spostamenti del Jeet Kune Do.

Capii che per apprezzare quel mondo dovevo immergermi completamente nella cultura del luogo, eviscerandone video, siti, video-corsi a distanza, video-corsi istruttori, nomi di arti il cui nome era marchio registrato, diplomi, magliette con stemmi degni delle griffe dei migliori stilisti. Dovevo dimenticare quei curricula gonfiati di nomi di venti, trenta arti marziali di cui quei pittoreschi personaggi, in gran parte americani, si dichiaravano Maestri.

E pensavo al Pukulan. Persone così preparate e dure all’impatto, che si allenavano da decenni che avevano detto: “noi ci riteniamo tutti principianti. Nel Pukulan non ci sono maestri, solo praticanti”.
Due pianeti lontani e inconciliabili.

Mi ritornò alla mente di quando un amico tanti anni prima, a una mostra dell’antiquariato, aveva comprato un Kris per il mio compleanno.
Per me all’epoca era solo un’arma impugnata talvolta da Sandokan. Poco mi importò quando, dopo averlo conservato in uno scatolone pieno di altre armi orientali (giapponesi e cinesi), riprendendolo, vi trovai il ‘batang’ (fodero) di legno rotto. I foderi dei kris hanno una sezione in alto, in prossimità del manico, a forma di vascello. Questa è detta ‘sampir’ e accompagna racchiudendo una parte allungata della lama detta ‘ganja’. Il ‘sampir’ del mio kris era spaccato in due. Ma, d’altronde, quella curiosa forma del fodero era in assoluto la parte che meno mi era piaciuta del regalo.

Ai tempi del regalo collezionavo armi dell’estremo oriente, giapponesi e cinesi. Non ero a conoscenza ne del Pencak Silat indonesiano ne del Kali filippino o del relativo uso e utilizzo di quelle particolari lame del Sud-est Asiatico.

Un Deja Vu. A questo pensai.
Chi si sarebbe immaginato che il mio viaggio nel mondo delle arti marziali mi portasse alla fine lì? O almeno in quella direzione?
Tolsi la polvere dal mio kris e lo misi in bella mostra, senza fodero, appoggiato su un mobile.
Per me era solo tornato a far parte di oggetto degno della mia collezione.

Lo adagiai accanto al kris filippino, di ben altre dimensioni.
Già da anni la mia collezione di armi orientali si era spostata geograficamente. Bolo, Barong, Golok, Kerambit e altre armi del Sud-Est Asiatico avevano sostituito Shuriken, Gama, Tonfa, Nunchaku, Jian e Tao.

Quasi come una metafora di ciò che per me erano le arti marziali a quel tempo, collezionavo armi orientali come collezionavo tecniche di vari stili.
La base, la passione principale era il Kali filippino. Ma il male tipico del Jeet Kune Do, non per l’arte in sé quanto per la mentalità con la quale viene diffuso, ossia il collezionismo, ancora faceva sentire la sua influenza sulla mia pratica. Mescolavo. Il Pukulan, per quanto valido ed efficace e se avessi avuto la possibilità di praticarlo, sarebbe stato un ulteriore o forse il principale tassello del mosaico della mia pratica.

Come se fossi rimasto folgorato da una splendida fanciulla vista solo una volta per strada, non avendo avuto il coraggio o la possibilità di approfondire la conoscenza e una volta sparita allo sguardo sentire l’amaro in bocca per la sensazione di non poter più vedere quel viso, quei lineamenti e quei suoi occhi, quell’arte indonesiana residente in Olanda svaniva nel ricordo lasciandomi l’amaro in bocca dell’accontentarmi a ciò che facevo e praticavo.

La mia unica possibilità di tenere vivo il ricordo di quei giorni era intensificare la mia pratica, cambiare il mio insegnamento, trasmettere le cose in modo nuovo.
Provo vergogna se ripenso a come descrissi tecnicamente il Pukulan ai ragazzi che si allenavano con me, ai movimenti e alle tecniche che mostrai loro. Ciò che pensavo di aver capito e colto in quelle poche ore.
Ma la ricerca non era finita. E mentre continuavo a cercare tracce degli olandesi in rete continuavo a documentarmi sulle arti marziali indonesiane e il loro mondo.

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Offline GiBi

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #81 on: June 21, 2011, 09:25:33 am »
0
Toc toc...Alfaaaa  :)

Quì attendiamo eh  ;)

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Offline Takuanzen

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #82 on: June 24, 2011, 10:22:30 am »
0

Walter spiegò: “Quante persone sono allenate a entrare così e sopportare tali impatti? Noi lo sappiamo, lo accettiamo. Sappiamo che se il dolore non viene gestito e usato assorbe la mente. Non è possibile pensare ad altro. Se ne viene fagocitati. Ma se sono allenato lo gestisco, lo uso, lo sfrutto, ne prendo forza, mi carica. Non mi blocca, anzi, mi spinge a dare ancora di più. Per questo è necessario allenarsi con realismo. E si arriva a un punto in cui sai che non puoi ricevere più dolore di quanto tu non sia già abituato a gestire. Un punto in cui il dolore ti insegna. E’ il tuo alleato. Non lo temi più. Ma a tutto ciò si arriva in modo progressivo, o se ne ricevono danni”.


Sottolinei bene che bisogna arrivare ad un tale livello di "confidenza" col dolore progressivamente e non bisogna improvvisare. Immagino che sia fondamentale in questo caso il ruolo della mente e dell'intenzione...

Ma la mia testa era altrove. Facevo tutto ciò che ritenevo efficace, ma il mio cuore marziale era rimasto lì, in quella camera d’albergo, su quel campo di basket. Era in quello spirito di amicizia e allenamento fine a se stesso, quella fratellanza lontana da fini commerciali, quel sordo doloroso contatto. La saggezza dell’osso.


Mi piace tantissimo questo passaggio. L'espressione "saggezza dell'osso" è stupenda: è tua o è un termine/concetto usato proprio dai maestri di Pukulan?

Quasi come una metafora di ciò che per me erano le arti marziali a quel tempo, collezionavo armi orientali come collezionavo tecniche di vari stili.
La base, la passione principale era il Kali filippino. Ma il male tipico del Jeet Kune Do, non per l’arte in sé quanto per la mentalità con la quale viene diffuso, ossia il collezionismo, ancora faceva sentire la sua influenza sulla mia pratica. Mescolavo. Il Pukulan, per quanto valido ed efficace e se avessi avuto la possibilità di praticarlo, sarebbe stato un ulteriore o forse il principale tassello del mosaico della mia pratica.


Il collezionismo non è un male tipico purtroppo solo del JKD, ma una mentalità tipica anche di molti praticanti di arti marziali cinesi (parlo per quello che conosco), che sommano stili, forme e tecniche eterogenee, ritrovandosi alla fine con un qualcosa di insostanziale e privo di contenuto. Fra gli occidentali è molto presente tale atteggiamento, tuttavia anche molti orientali lo fanno, spesso per motivi principalmente commerciali... :)

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #83 on: June 26, 2011, 10:41:43 am »
0
L'espressione "saggezza dell'osso" è stupenda: è tua o è un termine/concetto usato proprio dai maestri di Pukulan?

espressione mia.
Quelle di Walter o degli anziani le metto tra virgolette o è specificato.
Non avevo visto i tuoi quesiti, ti rispondo presto. Scusa il ritardo..  ;)

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Offline Samurai77

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #84 on: June 26, 2011, 11:48:33 am »
0
veramente affascinante...


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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #85 on: September 02, 2011, 10:11:42 am »
+2
......... e si riprende

PARTE XV - Avatar

Il logo apparve sullo schermo del computer inaspettato. Solo un’icona. Un avatar.
Piccolo poche decine di pixel. La mia retina mi rimandò quell’immagine del logo sulla divisa degli olandesi.
Periodicamente avevo cercato tutte le parole chiave possibili in rete: nomi, cognomi, termini.
Nome e cognome di Anand mi avevano portato ad una mail. La mail ad un account di un utente che scriveva in un forum olandese sul Pencak Silat. Uno strano nickname. Una piccola traccia.
Era tutto scritto in olandese. Discussioni, interfaccia, ma i forum si somigliano un po’ tutti e non fu difficile seguire le discussioni. Non capivo il significato, ma mi interessavano le parole chiave. Volevo che apparisse quella termine: Pukulan. O Pecutan o Madura. Nulla. I nomi che venivano menzionati erano altri.
Lessi molte pagine, doveva esserci un collegamento tra quella mail e il nome di Anand e la discussione.
Utilizzai un sito di traduzioni automatiche per aiutarmi. Convertii i comandi principali dell’interfaccia di quel forum dall’olandese all’inglese per navigare più agevolmente e visualizzare le pagine del profilo degli utenti, ma richiedeva l’iscrizione e non avevo il tempo in quel momento.
Rimandai decidendo di limitarmi a cercare ancora tracce di ..... Anand. Un nome. Una firma, alla fine di un lungo post.
Anand, si firmava un utente. Quante persone potevano esserci con quel nome. Mi illudevo o avevo un indizio?
Appena ebbi la possibilità e un po’ di tempo libero tradussi diversi comandi di quell’interfaccia per capire come seguire i vari passi per l’iscrizione a quel forum.
Fatto!
Perfetto. Adesso mi toccava cercare il comando ‘mostra i messaggi di questo utente’. Una volta superato questo passo iniziai a visualizzare le discussioni in cui quell’utente che si firmava Anand fosse intervenuto.
Pagine e pagine di chiacchiere sperando di leggere quel nome di quell’Arte che mi spingeva a questo.
In una discussione nulla.
Ne aprii un’altra. Quell’utente scriveva poco e interveniva meno. Decine di pagine di discussioni per leggere il suo nome appena un paio di volte.
Nulla. Un’altra, poi un’altra e un’altra ancora.
Pagine nere in cui le lettere scritte in colore chiaro, il bianco, scorrevano su per lo schermo una dopo l’altra. Una pessima scelta cromatica per gli occhi. Poche righe vanno bene. Il nero o i colori scuri rendono bene per alcuni siti, ma per le lunghe letture sono distruttivi e gli occhi non si condizionano come le ossa.
Tentai anche una ricerca per parole chiave: Pukulan, logicamente. Ma spesso appariva in liste o a sproposito.
Anche in quel caso, mi aiutai col traduttore automatico olandese inglese per tradurre interi brani o discussioni sperando si parlasse di Pukulan.
Tornai ai messaggi scritti da quell’utente.
Certo, l’immaginare un tempo persone che cercavano sperdute arti attraversando la giungla per poi pregare il maestro che si rifiutava di accettarli come allievi e restarvi accampati ai pericoli in attesa per notti e giorni, mi sembrava assai più romantico, pittoresco e affascinante. Ma quelle erano le mie possibilità. Due secoli prima si navigava per mari e terre sconosciute per giungere alla conoscenza. Ora si faceva tutto con le chiappe incollate alla poltroncina a rotelle di una scrivania sulla quale svettava appollaiato un luminoso monitor. Adesso è così che si naviga per la conoscenza.
Tra le discussioni dell’utente che si firmava Anand, ecco apparire un’altra firma.
Come quando l’immaginazione proietta nel presente le speranze trascinandole come per i capelli avanti ai nostri sensi, apparvero le lettere ‘Walter’ come firma di un utente intervenuto in una ennesima discussione sul Silat in generale. Ma ciò che mi confermava la possibilità che fosse ‘quel’
Walter era il logo che ne rappresentava l’Avatar.
Un termine diventato di uso comune per chi utilizza la rete, chi videogioca, chi frequenta blogs, forum e discussioni o social networks vari. In realtà Avatar è un termine sanscrito caro all’Induismo. Sta a significare ‘incarnazione’. Un avatar è un’incarnazione del Divino, una manifestazione corporea  di un Dio o di una Divinità.
Come Krishna lo è per Vishnu, un mucchietto di Pixel colorati rappresenta l’incarnazione digitale di una qualche persona. C’è una contraddizione di base. L’Avatar è una materializzazione di una entità incorporea, mentre nel caso di internet è il contrario: è una smaterializzazione di un essere umano nel mondo virtuale. Chi conia certi termini andrebbe aiutato a raggiungere il Nirvana a calci nel culo.
Un indizio resta un indizio. Ma due indizi formano una prova.
Un utente che si firmava Walter e utilizzava il logo del Pukulan Pecutan visto sulla giacca degli olandesi. Ebbi la certezza che si trattasse di lui. Non poteva essere altrimenti.
Era fine Luglio. Da lì a due giorni sarei partito per le vacanze estive. Se fosse stato lui e non mi avesse risposto prima di molti giorni? Avrei letto la sua probabile risposta solo a Settembre.
Mi adoprai per tradurre i comandi che mi servivano per compilare un messaggio privato:
“Caro Walter. Mi chiamo Claudio Alfarano.
Ho trovato il suo nome e il logo del Pukulan in questo forum e ho pensato potesse trattarsi della stessa persona che mesi fa ho avuto il piacere di conoscere in un seminario a Milano.
Se lei è quel Walter, volevo ancora una volta complimentarmi con lei e con i suoi compagni di allenamento per l’interessantissima  esperienza, sperando vi possano essere ulteriori occasioni future per rincontrarvi e poter rivedere e allenare la vostra bellissima Arte.
Sinceri e cordiali Saluti. Claudio Alfarano”.
Gli scrissi di pomeriggio. E la sera vi trovai:
“Salve Claudio, grazie per il commento. C’erano un po’ di persone e l’età non mi permette più di ricordare tutti i nomi. Non so se saremo di nuovo a Milano in futuro. Se verremo invitati sicuramente ci farebbe piacere tornare. Ma se ti è piaciuto il Pukulan sei il benvenuto.
Noi amiamo allenarci con chiunque.
Distinti saluti. Walter”.
Ero fuori di me per quella risposta. Il problema sarebbe stato chiedere il permesso a Alberto.
Walter mi anticipò nell’ulteriore risposta alla mia successiva mail:
“La ringrazio tantissimo per la disponibilità. Sarebbe per me un onore potermi allenare di nuovo con voi. Io ero uno dei quattro partecipanti istruttori che vennero con voi la sera in camera ad allenarsi. Foste davvero disponibili e generosi. Mai visto nulla del genere in altre arti marziali.
Se fosse possibile sarebbe per me una grande opportunità. La vostra Arte e il vostro modo di allenarla mi ha lasciato senza parole. Di nuovo i miei saluti. Claudio.”
E lui: “Caro Claudio. Per me non c’è alcun problema. Puoi venire e allenarti nella mia soffitta. Noi ci alleniamo lì. Solo bisogna avvisare Alberto. E’ un amico e per correttezza non vogliamo fare nulla alle sue spalle, dato che fai parte della sua associazione. A presto. Walter”.
Alberto! Sicuramente lo avrei avvisato. Sicuramente, conoscendolo, sarebbe stato un problema.
Decisi in un secondo: se avessi avuto la possibilità di allenare di nuovo il Pukulan e mi fossi trovato di fronte ad una scelta o un ultimatum, avrei abbandonato diplomi, associazione, corso, aggiornamenti istruttori, rappresentanze e tutto il resto, gettandomi a capofitto in quell’avventura.
Ammesso che a Walter tutto ciò potesse andar bene.
Trovarmi di fronte ad un’Arte Marziali con le maiuscole, come mai ne avevo viste prima, con gente con quella mentalità, era un’opportunità troppo ghiotta. Tutto ciò che marzialmente avessi mai potuto desiderare.
Ma da lì a poche ore sarei partito per le vacanze estive e non avrei avuto a disposizione un computer per un mese. Diamine!
Chiamai Bruno, lo informai delle novità, entusiasta gli spiegai la cosa un paio di volte per farmi capire. Come sempre, lui diede la sua disponibilità. Gli passai Log-in e password del mio account a quel forum olandese e gli diedi la possibilità di leggere lo scambio epistolare tra me e Walter.
Riscrissi a Walter, informandolo che causa partenza io non avrei più avuto la possibilità per tutto il mese di Agosto di potergli scrivere o rispondere. Gli dissi che in mia vece ci sarebbe stato il mio principale compagno di allenamenti. Presentandogli in due righe Bruno e di comportarsi con lui come se fossi io in persona.
Lo salutai, augurandogli buone vacanze. Mi rispose che quell’estate non avrebbe soggiornato in nessun luogo, essendo in cerca di lavoro. Mi augurò una buona estate e rimanemmo che ci saremmo riscritti al ritorno.
Avevo capito bene. Al momento lui era senza lavoro. E invece di sfruttare l’occasione e dare qualche lezione privata, come chiunque avrebbe fatto, mi aveva invitato gratis, senza neanche conoscermi, ospite a casa sua, per allenarmi … Che tipo!
Partii per le vacanze.
Mi tenni in continuo contatto con Bruno.
Si scrissero e si conobbero virtualmente. A sua volta l’invito fu ribadito fu esteso anche a lui. Saremmo potuti andare entrambi e saremmo stati i benvenuti a casa sua.
Il mese passò troppo lento, ma passò. Non vedevo l’ora di riprendere contatto, rileggere la corrispondenza tra lui e Bruno e chiedere il permesso a Alberto per potere andare.
« Last Edit: September 02, 2011, 10:19:34 am by Claudio Alfarano »

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kortobrakkio

Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #86 on: September 02, 2011, 12:35:10 pm »
0
Bene Claudio!
Attendevo ansioso il seguito.
Racconta,racconta!

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Offline conanramon

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #87 on: September 04, 2011, 22:46:07 pm »
0
really cool.. aspettiamo il seguito

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Offline Claudio Alfarano

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #88 on: September 05, 2011, 10:38:14 am »
+1
Parte XVI - Domande.....

 
“Cosa ne capisci tu di Silat per pensare di allenarti con loro?”. La frase di Alberto mi riecheggia tra incudine e martello.

Settembre. Avevo sentito Walter al telefono. Dopo le doverose presentazioni a voce mi aveva anticipato il suo scambio di opinioni con Alberto.

Non ne era stato felice.

Capii che il suo sarebbe stato un ‘No!’.

La decisione era già presa. Se lui mi avesse creato problemi e Walter fosse stato d’accordo, avrei lasciato l’associazione. E così fu.

Alberto si offese, accusando Walter di volersi rubare un allievo, adducendo che fossi un istruttore della sua associazione, che dovessi apprendere il Silat da lui soltanto.

Walter spiegò a Alberto che non c’era alcun furto di allievo, in quanto l’allenare il Pukulan non avrebbe richiesto affiliazioni o iscrizioni. Gli disse che l’associazione ne avrebbe tratto addirittura un vantaggio, potendo vantare un istruttore più esperto nell’Arte del Silat e che io sarei rimasto lì in associazione. Ma Alberto fu deciso nel dire no, aggiungendo: “non puoi insegnargli!”.

In realtà, Walter non stava chiedendo il permesso a Alberto, lo stava avvisando per correttezza. Non capiva quell’ostinazione. Non vedeva dove fosse il problema. Di fronte all’ostinazione gli rispose: “Tu non dici a me cosa fare”.

Era la prova lampante di come in certi ambienti, il miglioramento reale non è cercato. Ciò che si cerca è la quota associativa, il corso di aggiornamento, il far portare i propri allievi ai seminari dell’associazione, quasi esclusivamente tenuti dai direttori tecnici. Se Alberto avesse accettato io sarei rimasto probabilmente nell’associazione, studiando Kali e Jkd parallelamente al Pukulan, appreso per me stesso.

A poco valsero i tentativi di Alberto di screditarmi, di parlare male di me a Walter, di offrirgli la possibilità di seminari periodici. Walter non aveva gradito i toni, i modi, la mentalità da marketing.

Io ancor meno.

Chiamai Alberto e diedi le dimissioni.

Fu allora che mi disse: “Cosa ne capisci tu di Silat per pensare di allenarti con loro?”.

“Io? Di Silat? Nulla! Ma mi ci hai fatto tu istruttore, dimmelo tu!” gli risposi.

Scoprii poi quanto ne sapesse di Pukulan anche lui. Le sue conoscenze sull’argomento si limitavano a un paio di articoli da lui scritti su una rivista di settore e ad altrettante occasioni di allenamento con gli olandesi.

Mi accusò di averlo scavalcato. Ma in realtà Alberto aveva visto Walter un paio di volte in vita sua, non lo stavo scavalcando. Walter non era il suo insegnante. Un nuovo amico mi stava invitando ad allenarmi e chi avrebbe dovuto essere interessato al mio miglioramento marziale stava tentando di screditarmi, mettermi il bastone tra le ruote e fargli cambiare idea persino offrendogli opportunità di guadagno. Questo almeno fu quello che Walter mi disse della loro telefonata.

La telefonata a Alberto fu di cortesia. Per educazione. Avevo già dato abbastanza.

Diversa fu quella a Emilio. Mi dispiacque salutarlo e non vederlo più. Pur non condividendo il suo appoggiare i comportamenti del socio. Mi disse: “mah … Sono un po’ scettico circa quanto possa durare questa tua avventura, ma ti auguro buona pratica”. Avrei rischiato anche per un solo mese di prova di Pukulan. Magari non ne avevo le capacità fisiche, la sopportazione di certi regimi di allenamento. Sapevo che sarei stato messo alla prova. Ma volevo tentare comunque.

Mi lasciai alle spalle le polemiche, le voci e la schifezza che mi lanciarono dietro gettandomi a capofitto nell’organizzazione del mio viaggio in Olanda.

La corrispondenza tra me e Walter si infittì, come anche le occasioni per parlare e chattare. Passai serate intere a parlare di Silat con lui ed era sempre disponibile e pronto a darmi qualunque spiegazione chiedessi.

Kebatinan, cultura indonesiana, stili, tecniche, caratteristiche, luoghi, nomi nuovi. Era un susseguirsi di dati che andavano ad aggiungersi alle mie conoscenze marziali e una nuova terminologia, quella indonesiana, andava a intasare il mio cervello già pieno zeppo di termini marziali stranieri cinesi, giapponesi, inglesi, spagnoli e filippini.

Mi introdusse a tutto ciò che di scritto si poteva dire sul Pukulan, alle differenze con altre forme di quest’Arte, altri approcci. A come in America, ma anche in Europa, Indonesia, il Pukulan venga interpretato diversamente e come il nome indo di quest’Arte venga distorto e abusato da molti.

Vidi video di cosiddetti esperti che avevano inventato un loro stile, definendosi non solo Guru, insegnanti, ma anche Pendakar, fondatori. Persone che senza un’idea di cosa sia il Pukulan e del perché venga chiamato in quel modo, per magnificarsi avevano usato il termine come suffisso per lo stile praticato e insegnato ma che mediocremente si agitavano avanti a ignari allievi, mostrando loro movimenti che di marziale avevano nulla.

Nomi anche illustri, di personaggi famosi che fino a pochi mesi prima erano per me dei riferimenti per quell’arte, il Silat indonesiano, che conoscevo così poco.

Quanto più un’arte è sconosciuta e poco diffusa, tanto più vi potrà essere un proliferare di individui pronti a sfruttare quest’ignoranza. Se i punti di riferimento sono pochi, poche saranno le possibilità di raffrontare e quindi distinguere il positivo dal negativo. I termini di paragone saranno impossibili.

Questo era un aspetto negativo del Pukulan.

Se in rete o in seminari si vede una forma di Pukulan che è morbida, inconsistente, arrangiata, eseguita da persone in pessime condizioni fisiche e le cui conoscenze tecniche sono assai limitate e invece il Pukulan che avevo visto e ‘sentito’ restava chiuso, per pochi, sconosciuto, allenato lontano da occhi indiscreti, allora l’idea che gli altri potevano essersi fatti doveva necessariamente essere quella disponibile a tutti. Quella che per pochi era distorta. Ma l’idea comune delle cose la da la massa. Forse era la loro idea di Pukulan a essere distorta? Come si può affermare di praticare un Pukulan diverso, quando si è pochissimi a farlo, contro centinaia o migliaia che praticano blandamente?

Se la media o la vasta maggioranza dei praticanti, ad esempio, di Karate o Kung Fu in questo secolo praticano le loro arti con l’intensità di una cozza, quale è realmente il Karate? Quale il Kung Fu?

Se esistono anche lì, e sicuramente è così, gruppi che praticano fuori dal business, in modo discreto, duro, elitario, come si può considerare ormai il loro modo di allenarsi quello vero e giusto? In base forse al loro modo di interpretare quell’arte come nei tempi antichi o ai suoi esordi avveniva?

O è solo un’interpretazione ormai?

L’interrogativo resta e resterà sempre aperto. Ciò che era la norma, ossia un’Arte allenata in modo duro, efficace, per pochi, non commerciale, diventa l’eccezione. E quale è a questo punto la vera visione di quell’Arte?

Quella dei seminari? Dei corsi per tutti? Un’arte nata per colpire in modo duro, grazie a ossa condizionate, a una mentalità resa aggressiva da intense sessioni di allenamento, per pochi, trasformata, riadattata, resa morbida per tutti, diffusa in modo da essere praticata dal massimo numero di persone possibile, è e rimane la stessa Arte?

Questi erano e sono gli interrogativi che vengono da porsi.

Eppure è il sogno di tutti i marzialisti trovare un’Arte così. E’ il corrispettivo del vedere un ufo, un fantasma per altri. Ma poi, una volta scoperto che c’è? Non poter rendere nota quell’arte, tenerla per sé, non diffonderla, non poterla mostrare per timore che altri ne possano cogliere pochi movimenti riadattandoli e distorcendoli e a loro volta aprire corsi con quel nome, cose che in effetti accadono davvero, non è frustrante? Come è possibile far finta di nulla, volgere lo sguardo altrove, lasciare che quello scempio avvenga?

E chi ha fatto della propria Arte un mestiere? Dovrà necessariamente trovare i modi per guadagnare e viverci. Che interesse avrebbe a praticare un’Arte per pochi? Non divulgabile alle masse? Che interesse ha a rendere nota un’Arte allenata così ‘old fashion’? Che interesse ha ad ammettere una differenza di questo genere avanti ai propri allievi? Il suo modo blando di praticare ne verrebbe evidenziato. Dall’alto del proprio nome famoso e della propria posizione tenterebbe di screditare quell’Arte e i suoi praticanti, di tacciarli di fanatismo. Lui e i suoi seguaci li definirebbero ‘setta’, illusi o in tutti i modi pur di non vedere screditata la propria pratica, il proprio lavoro.

Queste domande mi ricordavano quando capita di pulirsi gli occhiali da sole o da vista o lo schermo di un computer o il parabrezza della propria auto.

Con il tempo si accumula polvere, impronte, piccole macchie. Ma il modo lento progressivo in cui avviene non ci da la possibilità di accorgercene facilmente. Tutto sembra normale. Pigrizia, capacità di adattamento ci fanno abituare a tutto. Solo decidendoci di sciacquare, pulire, passare un panno sulla superficie ci dà la possibilità di vedere di nuovo chiaro. Di vedere le cose come sarebbero dovute essere. E allora con stupore ci rendiamo conto che quanto visto e osservato era offuscato da impurità. Che ci siamo persi un modo nitido di vedere le cose e poterle osservare con una qualità sicuramente più vicina a come realmente dovevano essere.

Mentre i dialoghi con Walter su Silat, Pukulan e differenti approcci continuavano, decidemmo la data del mio viaggio in Olanda. 20 Novembre 2005.

I toni con lui erano molto amichevoli, non si poneva in alcun modo come un esperto o un maestro. Mi dava spiegazioni senza ostentare conoscenza e le domande sulle arti marziali si alternavano a quelle personali.

Walter mi stava studiando. Cercava di capire che intenzioni avessi. Aveva deciso di fidarsi di me, ma restava in attesa. Voleva capire il perché un tizio che insegnava arti marziali, che viveva a migliaia di chilometri di distanza volesse allenare un’Arte con la quale non potesse guadagnarci nulla. Abbandonando la sicurezza di un’associazione che gli offriva assicurazione infortuni, affiliazione, pubblicità diretta o indiretta, un programma e una facilità di studio sicuramente maggiore di quella che poteva offrirmi lui da tanto distante e solo periodicamente.

Io e Bruno saremmo andati assieme per circa tre o quattro giorni. Saremmo stati ospiti a casa sua. Non sapevamo che per l’occasione annunciò il nostro arrivo a tutti i ragazzi che si allenavano con lui, chiedendo loro di tenersi liberi in quei giorni e a sua volta chiedendo i giorni liberi e non pagati dal nuovo lavoro che nel frattempo aveva trovato.

Ci sarebbero stati Anand, Olivier, saremmo insomma stati presentati al suo gruppo di allenamento olandese.

Eravamo felicissimi anche solo per quella ospitalità. Incerti solo se andare fin lì in macchina o in aereo, chiesi a Bruno di tardare questa scelta per un problema di salute sorto in famiglia, non avendo comunque bisogno di prenotare il volo nel caso avessimo optato per le quattro ruote.

I risultati di certi esami medici richiesero il ripetere le analisi e la preoccupazione delle incerte condizioni di salute di un membro della mia famiglia mi spinsero a tardare la conferma della nostra presenza. A pochi giorni dalla data scrissi a Walter che non mi sarebbe stato possibile andare per problemi di famiglia. Ma non ebbi alcuna risposta. Ugualmente avvenne alla mia mail successiva.

La risposta di Walter, entrambe le volte, fu il silenzio assoluto.

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Offline conanramon

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Re:IL 'FRUTTO AMARO': Le Cronache del Pukulan
« Reply #89 on: September 05, 2011, 22:04:35 pm »
0
aspettiamo il XVII !!!!! anche se c'è sciopero generale speriamo arrivi domani :)