PARTE VIII - La mattanza
Le applicazioni erano quelle mostrate da Walter su Anand. Quelle estrapolate dal primo Jurus. Su attacco di diretto destro dovevamo uscire verso sinistra controllando il colpo in arrivo e percuotendo allo stesso tempo il viso e rientrando con altre percussioni. Tutto, logicamente, avanzando e colpendo avanzando. Non facile direzionare le gambe in un certo modo e usare le braccia contemporaneamente.
Come compagno di allenamento mi capitò Simone. Una fortuna. Un ragazzo disponibile e simpatico, umile ma dannatamente tosto come combattente. Un tipo molto alla mano e cordiale, ma che una volta indossati i guantoni per fare sparring non aveva mezze misure. Menava come se fosse sul ring in una finale per il titolo. Istruttore di Yosekan Budo e poi mio collega di corso istruttori di Kali e Jeet Kune Do. Aveva partecipato a molte competizioni a contatto pieno di svariate arti marziali. Il termine contatto leggero gli era totalmente alieno. Potente, sciolto di gambe, bravo anche nelle proiezioni, ottima tecnica pugilistica e abile nell’uso delle armi tradizionali giapponesi come tutti i praticanti esperti di Yosekan Budo. Un ragazzo tranquillo fuori dal quadrato, un avversario da non sottovalutare al suo interno. Fui contento di essere capitato con lui. Andavamo molto d’accordo. Spalle larghe, ben oltre il metro e ottanta di altezza, capelli castani ricci e tutte le ossa del viso abbastanza pronunciate.
I tre olandesi iniziarono a girare tra i partecipanti per controllare la corretta esecuzione delle tecniche. Alberto e Emilio giravano anch’essi. Uno di loro munito di telecamera. L’altro osservava incuriosito e divertito le “correzioni” degli esperti.
Fu una mattanza.
Io e Simone iniziammo ad attaccarci in modo alternato. Quattro o cinque attacchi consecutivi ciascuno, poi ci davamo il cambio. Tutti gli altri, a coppie, fecero altrettanto.
Vidi Walter avvicinarsi a una coppia. Spiegò loro come eseguire correttamente l’entrata. Mostrò come chi svolgeva il ruolo di aggressore dovesse essere più incisivo e realistico nell’attacco e come chi subiva l’attacco dovesse acuire i riflessi di conseguenza e reagire più prontamente, anticipando l’uscita e il rientro e facendo “sentire” la tecnica. Spiegò come.
Mi dilungo solo un po’ su questo argomento. Ci sarà tempo per spiegare, poi, i come e i perché. ‘Sentire’. Un termine che si usa spesso nel Pukulan. ‘Sentire’, ‘to feel’ è fondamentale. Domande come “do you want to feel?” (vuoi sentire?) o “do you feel it?” (la senti?), nel Pukulan sono molto frequenti. Spesso è il viso del compagno di allenamento a rispondere. Non c’è bisogno di dirlo. La contrazione muscolare del viso è esplicativa più di mille parole. L’espressione di dolore ci rivela se il colpo era buono. Altre volte ci si ‘racconta’ la sensazione. Tra praticanti si parla di ‘carne da allenamento’. Ci si considera tutti con questo appellativo. Potrebbe sembrare un termine dispregiativo, ma non lo è. Essere l’uno per l’altro ‘carne da allenamento’, sia quando si danno i colpi, sia quando li si riceve, è un reciproco regalo, uno scambievole carnale presente. Si prestano le proprie ossa e la propria ‘carne’ per permettere ad altri di allenarsi e si riceve altrettanto. E se la sensazione non soddisfa, se il ‘timing’ non è giusto, il punto di impatto non preciso, se non si riesce a far ‘sentire’ il proprio osso al compagno di allenamento, allora ce lo si dice e si riprova e si riprova ancora. Ci si assicura che la tecnica sia corretta. Non esteticamente e non solo meccanicamente. Chi dà.. deve ‘sentire’. Chi riceve deve ‘sentire’. Solo in questo modo si è sicuri che chi sta colpendo sta eseguendo qualcosa di valido e chi riceve sta imparando a ricevere con la giusta prontezza d’animo. Altruismo. Non saprei chiamarlo in nessun altro modo. Ma ancora più importante: se la tecnica non viene portata con la giusta dose di potenza, non si riesce ad ottenere una reazione adeguata da parte dell’avversario/compagno. Non si riesce a guidare l’avversario dove si vuole per potere continuare gli attacchi, e il concetto di consequenzialità va a farsi benedire.
Ecco perché Walter menava per spiegare. Non v’era cattiveria. Lui voleva che capissimo.
Non ho mai condotto allenamenti leggeri. Ho sempre creduto nella necessità di doversi allenare con un certo realismo, ma il loro modo di allenarsi era esattamente come Roberto mi aveva accennato quella sera a cena: fuori dai normali canoni, non commerciale, improponibile per grandi gruppi, corsi o seminari come normalmente li si intende.
La grande sala del palazzetto riecheggiava dei lamenti e degli impatti. Ricordo che riuscii ad allenarmi ben poco se non quando uno degli olandesi era da noi a spiegarci le tecniche. Si era tutti talmente presi da ciò che correggevano e mostravano alla coppia di turno, che ci si fermava lì a guardare cosa accadesse, sadicamente ridacchiando e divertendosi a osservare le facce sofferenti, più o meno stoiche, delle vittime di turno. Come pupazzi si veniva sballottati dagli impatti che arrivavano da più direzioni e non si faceva a tempo a riprendersi dal dolore o prendere coscienza dell’impatto precedente, che arrivava, incalzante, il seguente. Che fosse Walter, decisamente il più deciso – mi si passi il gioco di parole – Anand, che neanche ci scherzava, e il più ‘stiloso’ e tranquillo Olivier, tutti loro non risparmiavano particolari, rispondevano entusiasti più di noi alle nostre domande e curiosità. Una disponibilità mai vista in alcun seminario, dove, in genere l’esperto centellina informazioni e dettagli e il seminario non diventa altro che un grande spot pubblicitario pagato dai partecipanti.
L’aspetto più divertente era il terrore che si diffuse in sala quando ci si accorgeva, mentre si era intenti a eseguire le tecniche con il proprio compagno, che si era osservati da uno di loro. Ci si accorgeva con apprensione che si era puntati, controllati, e dal momento in cui la tecnica era certamente non idonea, si stava per essere corretti. Ciò significava dover ‘sentire’ le tecniche come dovevano venire eseguite direttamente da loro. Ma, il problema era un altro. Se ad esempio ero io a sbagliare l’esecuzione della tecnica su Simone e uno di loro veniva a correggermi, allora mi avrebbe fermato e gentilmente mostrato con cura la corretta esecuzione, dilungandosi in numerosi esempi sul malcapitato innocente mio compagno di allenamento; il quale, non solo era così gentile da prestare il proprio corpo a me per allenarmi, ma doveva prestarlo anche a loro per permettergli di spiegare dove sbagliassi. Dolore. E chi veniva corretto sorrideva diabolicamente guardando come il suo compagno venisse usato come sacco.
Con il passare delle ore si creò un perverso gioco di vendette. “Stronzo, falla bene stavolta, ti sta guardando. Eccolo lo sapevo, sta arrivando”, “quale dei tre?”, “il più cattivo!”. Risata sommessa. “Questa me la paghi, bastardo!”. Si giunse alle ritorsioni. Ci fu qualche ‘infamone’ che fingendo di non capire, chiedeva di rivedere l’applicazione o incalzava con altre domande per vendicarsi delle botte subite in precedenza.
Scherzavamo, ma fu davvero interessante vedere decine e decine di applicazioni e seppure doloroso, fu un gran giorno.
Attorno alla coppia che riceveva le spiegazioni e le correzioni si formavano cerchi di persone che osservavano le diverse applicazioni mostrate da Walter, Anand o Olivier. Avevano approcci diversi sia nell’agire sia nello spiegare. Walter diretto e duro. Anand una versione meno cattiva di Walter e Olivier un’enciclopedia. Restava lì per minuti e minuti. Mostrava alternative, variazioni, esercizi per apprendere quel movimento. Le applicazioni a coppie venivano interrotte da altre combinazioni introdotte da Walter su Anand. Sempre stessi risultati: impatti impressionanti. Ossa contro ossa. Tibia contro tibia con Anand che era letteralmente alzato da terra per la potenza dell’impatto. Se ne sentivano i rumori, coperti solo dalle esclamazioni di dolore indiretto dei partecipanti. Poi, di nuovo a coppie a provare quanto visto.
Incrociai un paio di volte Emilio, il quale sorpreso dalle abilità degli olandesi, commentava: “E’ incredibile come da una distanza così breve possa riuscire a sviluppare un impatto così potente!”.
Ricordo in particolare le volte in cui toccò a me ricevere le loro tecniche. Tra loro colpivano con ben altra intensità. Con noi andavano più tranquilli, ma si facevano dannatamente ‘sentire’.
La prima volta che Walter venne da me ebbi la possibilità di sperimentare in modo diretto le pesantezza dei suoi colpi. Lo attaccai con un diretto destro, spostandomi in avanti con la gamba destra. Intercettò e tagliò la mia linea di attacco, deviando e deflettendo il mio colpo e facendomi osservare le sue nocche da pochi millimetri. Venni sbilanciato, il suo braccio era pesante. Allo stesso tempo la sua gamba era nella mia, la sua rotula puntava nel mio menisco. Il mio busto sbilanciato in avanti. Aprì la sua mano allungando le dita e colpendomi il lato del naso e appoggiandomi le nocche delle dita sull’occhio destro. Colonia e tabacco. Questa manovra mi girò “gentilmente” il viso altrove. Si fermò un attimo, si girò verso Simone dicendogli: “E’ importante che lui non guardi cosa gli stia accadendo. Se non lo sa tutto fa più male e non sa da cosa deve difendersi”. Non sapere cosa mi sarebbe arrivato triplicò la preoccupazione degli impatti. Almeno sapendo dove potevo assecondare. Mi giunse una combinazione di qualcosa che non riuscii a vedere. Mi colpì controllando ripetutamente alle costole, ne contai almeno tre, ma furono così rapidi che ne sembrò uno con vibrazione. Le mura del palazzetto mi sembrarono di gelatina mentre l’impatto mi scuoteva in diverse direzioni. Il peso del mio corpo era prima avanti, poi spostato su un lato, poi dietro. Fu Simone ad aggiornarmi della situazione, dicendomi che aveva portato due colpi di nocche alle mie costole e un ultimo di gomito verso la mia testa. Di questo riuscii ad ascoltare il suono. Un forte scoppio il cui eco rimbalzò sotto al soffitto arcuato della sala. Aveva stoppato l’osso del suo gomito a un centimetro dal mio cranio, lasciandolo impattare sulla sua mano. Lo scoppio fu causato da questo. Il tempo di fissare un attimo l’immagine del suo omero sulla mia retina e sentire l’odore di candeggina della sua divisa e poi una acuta sensazione di dolore direttamente nel femore della mia gamba destra. Fui schiacciato verso il basso. Lui non mi aveva spinto via, mi aveva incollato al suolo. Il dolore era stato provocato da uno strettissimo movimento frustato della sua tibia sinistra nella mia coscia destra. Per alcuni secondi la mia gamba non rispose ai miei comandi. Tutta la mia concentrazione era presa dal dolore causato da quella frustata. Esisteva solo quello. Era partito da una distanza minima, senza caricamento, un movimento che apparentemente non doveva avergli chiesto ne sforzo ne preavvisi. Mi sorrise e ci spiegò: “A me non interessa spostare via o spingere il mio avversario. Altrimenti non posso colpirlo. Io voglio stargli a stretta distanza. Quella è la nostra specialità. La stretta distanza. Dove i colpi arrivano rapidi e molti sono impreparati a reagire. A me interessa spostarlo quel tanto che basta per sbilanciarlo se vuole colpirmi, levare peso alle sue possibili reazioni, per poi incollarlo giù, dove dico io. Poi, colpirlo e colpire ancora. Non importa cosa voglia farvi un aggressore. Voi colpite. Colpite sempre!”. “Pukul!”. Alzò le sopracciglia. “Always Pukul!”